Anni di Piombo: un lento cammino di riconciliazione

Intervista al padre gesuita Guido Bertagna autore insieme ad Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato del libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto

Parole chiave: terrorismo (74), italia (221), anni settanta (3), chiesa (665), riconciliazione (3), giustizia (15), misericordia (105)
Anni di Piombo: un lento cammino di riconciliazione

Nell’ambito dell’Ottobre missionario, nella sala della parrocchia di Santa Rita, uno degli incontri sul percorso «Nel nome della Misericordia. Testimonianze dalle periferie del mondo», è stato dedicato ai testimoni di riconciliazione, «La misericordia è pienezza del perdono», con i padri gesuiti Guido Bertagna e Giancarlo Gola. Il primo da oltre dieci anni, anche per la sua opera nel carcere milanese di San Vittore, ha lavorato in un percorso di giustizia riparativa con le famiglie delle vittime e i responsabili della lotta armata degli anni Settanta. Un percorso raccontato ne «Il libro dell’incontro» (Il Saggiatore) scritto da padre Bertagna insieme con Adolfo Ceretti, professore di Criminologia alla Milano-Bicocca e Claudia Mazzucato, docente di Diritto all’Università Cattolica.

Padre Bertagna cosa le ha lasciato questo percorso scaturito poi nella realizzazione del libro?

Ho un ricordo vivo di quegli anni, che sono rimasti profondamente dentro di me. In quel periodo a Torino ci si imbatteva in posti di blocco, si veniva controllati, si respirava una tensione che è poi rimasta dentro. Tensioni fortissime, perquisizioni, un clima di violenza verbale e fisica diffusa. Poi negli anni questo progetto mi ha portato a ritornare su quelle vicende e credo di aver compreso più a fondo la tragica realtà che ha attraversato il nostro Paese. Gli incontri tra le vittime e i responsabili della lotta armata sono stati davvero un cambiamento interiore che ha coinvolto tutti. Aver ascoltato le loro storie, i dolori, le ferite insanabili, le solitudini, le speranze ci ha aiutato a definire meglio le attese delle vittime e dei colpevoli, che ripetevano spesso: «Il nostro dolore non rimanga solo nostro, non ricada solo su di noi, ma possa essere ascoltato e accolto anche da altri», perché non si ricada in futuro negli stessi errori. Perché il volto dell’altro rimette in modo le cose, non per rimuovere o dimenticare, ma per rendere la vita meno pesante e compromessa da un lutto tragicamente consumato.

Quante persone sono entrate in contatto con il progetto e come si sono avvicinate a questo cammino?

Il cammino è volontario e libero, e non può che essere così. Si entra perché lo si vuole, perché matura una sufficiente serenità di fronte ai tragici fatti accaduti, perché si accetta di fare il cammino… Tra le persone legate ai fatti di quegli anni abbiamo raggiunto sessanta-settanta persone, mentre quelle coinvolte in fatti di sangue sono state migliaia. Come potete immaginare il numero è piccolo, rispetto alle proporzioni dei fatti, che tracciano un arco di tempo piuttosto lungo: convenzionalmente gli anni del terrorismo in Italia durano dal 1969 al 1983, anche se in realtà sono iniziati prima e sono finiti dopo. Di queste decine, che ho ricordato, solo alcune hanno accettato di fare parte di un gruppo che è andato avanti per anni e prosegue tutt’oggi.

Bertagna

Il male e la violenza sono i paradigmi centrali di quelle vicende tragiche. Come riesce la giustizia riparativa a lenire i dolori e le ferite causate da fatti così gravi?

Una dimensione molto bella della giustizia riparativa è che non censura niente: per esempio, che una vittima senta nel profondo, nella pancia, il desiderio di restituire il male che è un’esperienza assolutamente comune. Questa dimensione può e deve rientrare in una dimensione di giustizia riparativa, che attraversa il conflitto senza evitarlo o peggio addolcirlo con parole addomesticate, ma cerca di dare un nome alle situazioni che si vivono e si sono vissute. La giustizia riparativa sa fare posto al disordine, sa trovare delle dimensioni che nel processo penale non entrano e non sono di interesse per i giudici, che invece applicano una giustizia retributiva. I giudici decidono sui fatti e le eventuali colpe, comminano pene a norma di legge, non analizzano come si sentono le vittime e quale percorso ha fatto il colpevole. Diventa invece materia per il magistrato di sorveglianza e per la riabilitazione del detenuto nel corso degli anni.

Quale sarà l’esito futuro di questo progetto, dopo 15 anni di lavoro di ascolto e cammino comune?

Non lo sappiamo. Tutti insieme ci siamo dati un tempo di verifica per capire come proseguire nel cammino. Da un anno, siamo in giro per l’Italia ad accompagnare questo racconto in incontri di presentazione e dialogo per allargare questa memoria condivisa. Perché in fondo sulla questione della lotta armata, il terrorismo e gli anni di Piombo non si sono ancora fatti i conti e soprattutto la comunità italiana ha preferito dimenticare. Cerchiamo di capire con l’aiuto di tutti quale direzione prendere. Per esempio, un’idea è quella di allargare il confronto con altre vittime di altre tragedie che hanno colpito e colpiscono il nostro Paese e le nostre comunità.

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