Fratel Bordino dalla Russia alla Santità

Un profilo sulla vita di Andrea Bordino, diventato Fratel Luigi, cottolenghino e oggi salito agli altari, addi 2 maggio 2015 a Torino

foto Bussio, Area Vitali la beatificazione di Fratel Bordino

Il commilitone Pietro Ghione racconta: «Non aveva niente, moriva di fame e dava via quel poco che gli passavano. Io non ho conosciuto altri Alpini con il cuore grande come Andrea Bordino».

Durante l’ostensione della Sindone, settant’anni dopo la seconda guerra mondiale e le atrocità dei «lager» e dei «gulag», sabato 2 maggio 2015la Chiesaproclama beato l’artigliere alpino Andrea Bordino, fratel Luigi della Consolata, che Papa Benedetto XVI nella visita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza cinque anni fa il 2 maggio 2010 definì «una stupenda figura di religioso infermiere».  

Nasce in una famiglia contadina a Castellinaldo (provincia di Cuneo, diocesi di Alba) il 12 agosto 1922. Determinanti l’educazione cristiana in famiglia e la militanza nell’Azione Cattolica. Nel gennaio 1942 è arruolato, con il fratello Risbaldo, tra gli Alpini della «Cuneense» mandati a morire nella sciagurata «campagna di Russia». Due settimane di tradotta attraverso mezza Europa, poi chilometri e chilometri a piedi per arrivare al fiume Don. L’attacco sovietico costringe gli alpini a ripiegare: migliaia di morti, feriti e prigionieri, tra i quali i due fratelli. Andrea finisce in Siberia e poi in Uzbekistan. Mesi e mesi di privazioni, atroci sofferenze e spostamenti da un gulag all’altro lo riducono a una larva.

Nell'ottobre 1945 i due fratelli rientrano a Castellinaldo. Provvidenziale l'incontro con don Secondo Bona, prete della Piccola Casa, dove Andrea entra il 26 luglio 1946: il 18 luglio 1948 emette i primi voti religiosi come laico consacrato e assume il nome di fratel Luigi della Consolata; nel gennaio 1965 la professione perpetua. Partecipa alla vita della comunità dei fratelli: vicario generale della Congregazione dal 1966, si occupa del novi­ziato, del probandato, dell'aspirandato e delle comunità locali; nel 1972  è superiore della comunità di Torino. Donatore di sangue, nel giugno 1975 scopre di avere una leucemia acuta. Due anni di calvario. Muore a 55 anni il 25 agosto 1977.

Dalle lande desolate della Russia ai letti del Cottolengo - Andrea matura una mite religiosità, una delicata vocazione e una vigorosa spiritualità in quella disastrosa spedizione. Il cappellano Carlo Gnocchi, l’artigliere Andrea Bordino e il capitano Giovanni Gheddo – vercellese e padre di famiglia, ora servo di Dio e prossimo beato - sono alcuni degli esempi di soldati italiani che da quella campagna si incamminano verso la santità. Dal «calvario» di sofferenza e orrore, di ferocia e fame, di gelo e morte germinano un’eroica donazione. La interminabile «strada del “davai”» che in russo significa «avanti, cammina!» è lastricata di eroismo militare, umana generosità, virtù cristiane. 

Carlo Gnocchi in «Cristo con gli Alpini» scrive: «In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l’uomo. L’uomo nudo, completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari paurosamente emersi. Ho visto contendersi il pezzo di pane o di carne a colpi di baionetta; ho visto battere con il calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti che si aggrappavano alle slitte; ho visto un uomo sparare nella testa di un compagno che non gli cedeva una spanna di terra, nell’isba, per poi sdraiarsi al suo posto a dormire. Eppure, in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà, di gentilezza e d’amore – soprattutto dagli umili – e è il loro ricordo dolce e miracoloso quella vicenda disumana».

Il cuneese Nuto Revelli – autore di «Mai tardi. Diario di un alpino in Russia», «La guerra dei poveri», «L'ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella II guerra mondiale» - in «La strada del “davai”» considera: «Non mi parve poi tanto strano che un reduce dalla prigionia di Russia avesse scelto di farsi frate. Non dimenticherò mai le parole che don Gnocchi ci rivolse dopo il rimpatrio: “I più non sono tornati. Anche noi siamo morti durante la ritirata. Torniamo alla vita migliori”».

Mario Rigoni Stern, autore de «Il sergente nella neve» osserva: «Chi supera la prova nasce un’altra volta. Due fratelli in Russia, artiglieri della Cuneense, nella notte dei morti congelati, si stringono vicini e sopravvivono. Promettono una cappellina alla Consolata. Ma Andrea, il più giovane, quando ritorna dalla durissima prigionia, fa di più: bussa alla porta del Cottolengo. Ha vissuto ogni dolore umano e ora al dolore umano decide di dedicare il resto della sua vita. È lì, dentro le mura del Cottolengo per dare una mano ai più appartati e ai più disgraziati umani. Ed è nato per la terza volta».

Il suo segreto? Una fede incrollabile, una preghiera continua - Il soldato Mario Corino testimonia: «Andrea veniva nella baracca, mi passava una mano sotto la schiena e una sotto le ginocchia e mi portava al gabinetto di peso, servendomi meglio che poteva». L’alpino Michele Pellegrino: «Nel campo si era un po’ tutti avvelenati, la legge della sopravvivenza portava alla rapina vicendevole: ma questo non toccava Andrea. Lui passava il tempo a confortare i moribondi nel lazzaretto». L’alpino Calorio Melchiorre: «Parlava pochissimo, ma quel poco che diceva era sempre un invito alla speranza. Ricordo che ripeteva: “C’è un Supremo! Torneremo a casa”. La mia speranza era nei tacchi, invece lui pur mezzo cadavere era certo di ritornare. Era ridotto a pelle e ossa ma accudiva i malati.  Non aveva medicine o materiale ma ti stava vicino, ti aiutava, ti diceva parole di luce, ti dava la forza di dire una preghiera, di sperare». Un altro testimone: «Una sua potente arma era la preghiera. Riusciva a far pregare chiunque».

Serve  gli ammalati in ginocchio - Impara a fare l’infermiere dai fratelli cottolenghini e frequentando il «Maria Vittoriaۚ» e il «Maurizia­no». Per quasi trent’anni lavora in sala operatoria come anestesista e nei reparti ortopedico e chirurgico. Dopo una giornata intesa e faticosa, dedica la serata ai poveri che bussano alla Piccola Casa. Dice: «Dove troviamo maggiore riposo se non anche nell’aiutare il prossimo bisognoso?». La sanità è efficace quando il professionista cura con perfezione tecnica ma anche con rispetto e comprensione. Fratel Luigi è professionista di alto valore e di grande bravura. I medici ne rilevano le doti umane e professiona­li; le infermiere, religiose e laiche, hanno in lui un modello; i pazienti sono tranquilli e sicuri fra le sue mani robuste e forti. I sanitari si rivolgono a lui quando le diagnosi sono più difficili. 

«La mia arrogante presunzione di medico venne punita» - Testimonia il dottor Secondo Carnevale Schianca: «Fratel Luigi entrò nella mia vita quando nel 1966 incominciavo la mia attività di medico all'Ospedale Cottolengo. Trovavo incomprensibile e ingiustificata l’importanza che i col­leghi attribuivano alla sua figura e alle sue parole. Nella mia formazione di giovane medico in un istituto universitario impregnato di nozioni, di cultura e di aspirazioni scientifiche, non trovavo logico che un umile infermiere, roz­zo nei modi e incerto nel linguaggio, venisse consultato con tanta riverenza dai medici. Ben presto la mia arrogante presunzione venne puni­ta. Un sabato pomeriggio venni chiamato d'urgenza a soccorrere una paziente con una lussazio­ne bilaterale della mandibola. Ahimè! La mia cultura universitaria, la mia esperienza, le mie capacità professionali vennero mortificate mentre fallivo nelle mano­vre terapeutiche. Mi accingevo a trasferire ad altro centro chirurgico l'ammalata, quando una voce timida­mente disse: “Chiamiamo fratel Luigi” e fratel Luigi venne, operò in silenzio e rapidamente ottenne la riduzione della lus­sazione. Cominciai a capire cosa rappresentasse nella sua costante disponibilità e nella sua abilità professionale. Da allora lo ebbi spesso accanto nella difficile rianimazione di un paziente in stato di shock allergico da infusione di sostanze iodate, per accertare una diagnosi di pancreatite, per risolvere le piaghe da decubito, ecc.».

Alla Piccola Casa fa tutto la Provvidenza - Fonda il gruppo donatori di sangue, scelti di preferenza tra gli ospiti della Piccola Casa - allora le donazioni erano dirette da donatore a paziente - e istituisce una piccola emoteca nella sala di medicazione attigua alla sala operatoria. Viso aperto, non ride quasi mai, sorride spesso. «Aveva un'andatura solenne, non correva né camminava piano, il suo andare era mae­stoso, esprimeva la ricchezza e la nobiltà dei valori che portava in cuore». Dice: «Abìtuati a tenere le mani forti per alleviare le infermità dei corpi ma sfòrzati di mantenere il cuore e la mente uniti a Dio in continua preghiera». Grande umiltà, una virtù necessaria nel mondo sanitario, spesso invaso dalla prepotenza della carriera, dall'orgoglio del potere, dalla presunzione del sapere, dal delirio di onnipotenza, da un tecnicismo esasperato che crede di poter manipolare tutto, anche la persona, la vita e la morte. Un testimone: «Per curare le piaghe spesso lo vedevamo inginocchiato per terra». Dice: «Alla Piccola Casa èla Divina Provvidenza c’è, è grande e fa tutto».

Innamorato della Sindone - È innamorato della Sindone per la familiarità con la sofferenza. Il confratello Domenico Carena testimonia: «Per lui il mistero del Crocifisso è centrale e determinante. La sua vita è strutturata sul radicalismo gioioso del Vangelo. Venerala Sindone quale memoria della Passione perché gli richiama i lineamenti dolci e forti del Salvatore». Vedela Sindone durante la prima ostensione televisiva del 23 novembre 1973 da Palazzo Reale. 

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