Politiche per il Welfare - LE NOSTRE DOMANDE

Diciassette candidati a Sindaco per Torino. In vista delle elezioni di domenica 5 giugno pubblichiamo brevi interviste a ciascuno di essi su temi di primo piano per il futuro della città. Approfondiamo il tema del Welfare: oltre le emergenze è necessario cambiare cultura e mentalità, frenare le disuguaglianze. Leggi le risposte ai candidati sindaco

Politiche per il Welfare - LE NOSTRE DOMANDE

Come cambia la città, cosa significa stato sociale, inclusione, capacità di ricucire le distanze tra la città benestante e quella in difficoltà. Uno scenario nuovo e inedito attende Torino e il suo territorio nei prossimi anni, come ci apprestiamo a costruirlo. Vita, libertà, uguaglianza, giustizia, persona e sua cura, comunità contro individualismo ecco alcune delle priorità che non possono rimanere proclami o desideri ma, al contrario, urgenze e prassi vita politica, sociale, economica e cultura. Serve dunque, dopo che si è consumato un ventennio di trasformazione urbana ed economica, una visione più chiara su dove vogliamo andare.

Nuove e vecchie povertà

La povertà oggi nel nostro territorio. Pur nella diversificazione, c’è una trasversalità molto preoccupante su tutta la regione. Possono esserci sfumature ma la povertà grigia si sta incancrenendo ed  è uguale una realtà che riguarda tutta la città e la regione anche nelle zone ritenute protette. La povertà esclude, non si può sconfiggere del tutto ma possiamo fare in modo che chi è povero non venga emarginato, questo è la questione di fondo su cui si devono rendere conto anche le comunità pastorali. Dobbiamo lavorare per l’inclusione dei poveri, partendo da loro. Ascoltandoli. Questo me lo ha insegnato l’arcivescovo. Questo è il principio, in questi cinque anni mi sono convertito pastoralmente.

Aprire gli occhi sulla realtà

Bisogna aprire gli occhi e comprendere veramente la realtà della nostra città in tutte le sue comunità, territori e aree dal centro alle periferie. Crediamo che la comunità non conosca a fondo la realtà di una città divisa, con un ceto medio in forte diminuzione, una parte ricca e benestante esigua e lontana ed una grande parte del popolo in difficoltà. Il rendersi conto di questa realtà accorcia le distanze tra le due città, come richiama l’esperienza dell’Agorà del Sociale. Non bisogna avere paura di evidenziare le situazioni difficili, denunciare le inadempienze e inadeguatezze degli interventi, rivendendo i modelli di progettualità nel campo sociale. E’ dunque necessario fenomeni di paternalismo e pietismo, rispetto alle emergenze, che sono ancora troppo presenti nella mentalità dell’intervento sociale. Bisogna  comprendere come la scala sociale non è più rigida e uniforme come un tempo, e nuove e vecchie povertà siano in grado di colpire chiunque. Un nuovo modello di welfare molto attento ai cambiamenti che nella società avanzano, chiedono un supplemento di creatività e progettualità con focus dedicati soprattutto sui bisogni delle persone.

Alla radice del cambiamento

Oggi si fatica a trovare soluzioni nuove perché il cambiamento è stato molto forte, in qualche modo radicale e di conseguenza non siamo ancora riusciti a costruire un modello nuovo nel campo del sociale (welfare). Sono stati fatti molti tentativi ma bisognerebbe passare da modi nuovi per fare le stesse cose a realizzare cosa diverse da fare e questo è il punto principale. Per poter fare qualcosa di nuovo e originale è necessario uscire dall’impianto attuale che vede una interazione parziale tra pubblico e privato. Occorre un sistema in cui il pubblico e il privato, progettino, verifichino e lavorino davvero insieme. Creando un legame che sia diverso da un mero rapporto di collaborazione ma diventi qualcosa di più rispetto all’oggi. In caso contrario non muterà nulla.  Bisogna partire dai territori e dai micro ambienti perché la nostra città ha una ricchezza ineguagliata in altre parti d’Italia di relazioni, reti, esperienze che sono il collante della coesione dei nostri quartieri, non tanto nella loro accezione amministrativa come circoscrizioni, ma come sedimento sociale di famiglie, legami, luoghi di aggregazione. Perché c’è una ricchezza di associazioni, scuole, luoghi di dialogo e confronto tra le quali, naturalmente, va inserita la parrocchia, le nostre comunità ecclesiali territoriali. Una parrocchia unanimemente stimato ma che ha bisogni di reinventarsi per essere da un lato luogo di evangelizzazione e dall’altro di solidarietà e fraternità umana, per evitare un processo di chiusura rispetto alla realtà sociale. Torino deve diventare comunità di territori e non una globalizzazione indistinta. Naturalmente ci vuole una regia per evitare frammentazioni. Uscire dalle strutture mentali vecchie e aprirsi a quell’idea di chiesa in uscita e alle periferie esistenziali tanto care a Papa Francesco e nella nostra diocesi promosse dal progetto dell’ Agorà del Sociale. Si tratta di una scommessa pastorale di alto profilo.

Innovare e costruire oltre l’emergenza

In questi anni siamo passati da una logica di interventi spot ad una logica di interventi su progetto. Ora bisogna passare da una logica di lavoro a progetto ad un percorso, ovvero mettere in atto a fianco della continuativa dei progetti emergenziali, alcuni processi che in tempi medio lunghi portino a dei cambiamenti non solo nell’ambito della struttura del servizio sociale ma anche nel prendersi carico delle persone più in difficoltà. Significa avere il coraggio di dedicare del tempo e delle risorse non solo umane su temi trasversali rispetto alle varie aree e settori non più particolareggiate e soprattutto rispetto ai soggetti, bambini, giovani, adulti, anziani, mettendo in campo risorse diverse da quelle dell’ambito socio-assistenziale. Riprendere in mano la possibilità di interazione con il mondo economico e quello culturale ed educativo della città.

Chi sono i soggetti più deboli,  poveri e fragili

Nella grande famiglia delle persone in difficoltà ci sono gli estremi: ovvero chi sta più in basso e chi più in alto: le persone in povertà grave o estrema che stanno aumentando e dall’altra parte ci sono i nuovi poveri. Bisogna lavorare in modo parallelo per aggredire le due fasce, così diverse, di povertà. Avere il quadro complessivo ma anche non diversificare troppo gli interventi che hanno bisogno di una prospettiva non solo emergenziale ma di lungo periodo. L’errore più grave sarebbe concentrarsi troppo su una fascia oppure sull’altra. Più che di soggetti bisogna parlare di fasce di debolezza dentro le quali si troveranno le storie personali e dove sono presenti più soggetti. Scelte operative sociali e scelte politiche dovranno dunque tenere conto di questo fenomeno che è molto più articolato di quello che si presenta o come viene indicato dai mezzi di comunicazione.

Come dobbiamo fare per cambiare ed essere in grado di conoscere i bisogni della comunità

Bisogna incominciare ad interpretare la città non più con categorie meramente economiche o esclusivamente sociali ma con paradigmi diversi prima fra tutte la fraternità, che non vuol dire l’amicizia tra le persone o semplicemente l’espressione ecclesiale del vivere come il Vangelo, ma come elemento di responsabilizzazione delle diversità delle singole persone e dei soggetti uniti in un obiettivo comune. Un obiettivo che oggi a Torino non è così chiaro né agli attori pubblici né a quelli privati. Ci sono troppi percorsi paralleli contrassegnati più dalla divisione che dall’inclusione in campo sociale, analogamente si registrano realtà simili nel dialogo politico, economico e religioso. Culturalmente abbiamo bisogno di una contaminazione valoriale tra mondi diversi che ha bisogno di molto dialogo.

Ci sono molte scuole di dialogo ma si fa fatica a costruire insieme perché non ci sono più le grandi agorà di partecipazione e di confronto (partiti, sindacati, movimenti, comitati). Facciamo fatica ad incontrarci sul terreno dell’umanità anche come comunità religiose e per noi ecclesiali. C’è il rischio di diventare troppo legati ai singoli bisogni oppure perdersi in dibattiti ideologici sui possibili desiderata.

No alla delega in bianco ma partecipazione sociale

Dobbiamo cambiare questo senso di delega che da un lato è positivo perché naturale processo di organizzazione sociale ma che, se estremizzato, porta  allo mancanza di responsabilità dei cittadini. Troppe persone vivono nella comunità e come soggetti individualistici e privi di contatti sociali: solidali e di mutua assistenza. Purtroppo la parte «benestante» della città ha delegato a istituzioni, enti, realtà associate e di volontariato, il compito di provvedere alle fasce disagiate della popolazione.  E istituzionalizzare la realtà del disagio e della povertà è un rischio grande perché si sviluppa una collaborazione in termini di risorse economiche (da parte della città che ne dispone) cedendo però al pubblico e al privato un impegno che dovrebbe partire da ogni persona e comunità per cambiare alla radice e in modo culturale la mentalità comune. Questo scenario va cambiato perché a fianco dell’impegno delle istituzioni pubbliche e private, necessario per la gestione complessiva delle problematiche, c’è bisogno di un sottofondo diffuso e pervasivo che entra dentro la dimensione sociale dalle famiglie alle comunità. Rivalutare le situazioni perché al centro non ci sono individui da assistere ma persone che sono risorsa e vita per la comunità, provando a mettere insieme delle risorse grazie alla generosità di coloro che ne dispongono. L’opportunità di offrire piccoli lavori che potrebbero risolvere non tanto il tema più ampio della disoccupazione ma sicuramente quello dell’inattività e della marginalità di troppe persone.  Per realizzare tutto ciò bisogna ridare dignità a tutte le realtà che stanno tra Stato e mercato e che compongono la parte più vivace e creativa della società.

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