La prova del fuoco. Continua ad incepparsi la catena di comando

Dal dramma delle montagne in fiamme alle negligenze diffuse

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La prova del fuoco. Continua ad incepparsi la catena di comando

Quel fuoco sui versanti della Val di Susa e delle Valli canavesane non è solo un’emergenza della montagna. Non è solo un problema che riguarda venti Comuni della periferia dell’impero. Non sono solo  boschi che bruciano con il fuoco che spinto dal vento si avvicina alle case e si mangia le ultime baite e gli alpeggi in quota. La drammatica settimana vissuta in quelle vallate è un ennesimo campanello d’allarme sulle quotidiane sfide dei cambiamenti climatici che toccano le Alpi, sulla natura che ha un corso incontrollato e che ci vede poco attenti, sul bosco che svolge funzioni che ora non sono più, ma anche su temi sociali, antropologici e istituzionali sui quali aprire gli occhi.

Le interconnessioni tra aree urbane e aree montane, rurali, tra città e montagna, tra centro e periferia, hanno toccato negli ultimi anni un punto molto basso. Le Olimpiadi invernali di dieci anni fa sembravano aver aperto la possibilità di legami autentici e chiari. Gli eventi degli ultimi giorni confermano che così non è. Le interconnesioni tra le vallate e il capoluogo finiscono per essere a totale svantaggio delle prime. Torino fatica a capire che quel bosco che brucia, quegli ettari frantumati e neri sono un problema per la città. Non assorbirà più anidride carbonica e dunque non sottrarrà uno tra i principali agenti inquinanti. Non sarà più tagliabile e non rappresenterà più un valore per i proprietari. Non sarà un luogo dove fauna ed essenze vegetali possono rigenerarsi contribuendo alla biodiversità. Tutto questo non solo a scapito delle valli, dei montanari e della montagna. Le conseguenze sono drammatiche per l’intero Piemonte, si può dire per l’Italia e per l’Europa, visto che le Alpi sono un polmone verde e il più grande bacino idrografico del Vecchio Continente. Lo deve tenere ben presente chi vive a Mompantero e allo stesso modo chi risiede in corso Vittorio Emanuele a Torino. Va spiegato nelle scuole, assieme a serie lezioni sui cambiamenti climatici, sullo spopolamento della montagna e sulla crisi dei ghiacciai. È un dato sociale questo, che riguarda l’organizzazione delle comunità e i rapporti tra sistemi territoriali. Urbani e periferici.

Non possiamo non guardare allo scenario complessivo, ambientale e paesaggistico. Abbiamo in Piemonte un milione di ettari di bosco (diviso cinque milioni di particelle catastali!) che continuano a crescere, a invadere il prato-pascolo, senza una corretta gestione e pianificazione, senza un ruolo protettivo. Sono dunque più facile preda del fuoco, appiccato non da «piromani», bensì da «incendiari», per dolo o per colpa.

Come spiega Giorgio Vacchiano, dottore forestale e membro della «Società italiana di Selvicoltura ed Ecologia forestale», «la prevenzione è possibile e indispensabile, in quanto rende la vegetazione meno infiammabile tramite diradamenti del bosco nei punti strategici e interventi per eliminare il combustibile fine».

La prevenzione si può e si deve fare. Lo impongono le condizioni ambientali e climatiche. La crisi idrica e la siccità sono strettamente connesse alla buona gestione di un bosco, tagliato correttamente ogni 25-30 anni, gestito (il bosco non è «sporco», da pulire, ma da gestire correttamente).

Così si proteggono i versanti alpini anche dal dissesto idrogeologico, grande rischio e altra emergenza con i quali fare i conti (anche qui, con una Torino che capisce le dinamiche delle valli) se le prossime piogge saranno forti e continuative come quelle del novembre 2016. Il Canavese ad esempio, dopo gli incendi che hanno interessato negli ultimi giorni Sparone, Ribordone e Locana, nel Parco nazionale del Gran Paradiso, ha dimostrato dopo l’alluvione distruttiva del 2000 di aver imparato la lezione sul fronte del dissesto, con sistemi avanzati di monitoraggio e controllo dei corsi d’acqua. Sul bosco però, come molte altre valli alpine piemontesi, ha fatto poco e oggi sono troppo pochi i Comuni dotati ad esempio di un «Piano forestale», decisivo e necessario oggi per il recupero e la rigenerazione del bosco aggredito da fuoco, che ricrescerà più lentamente e che ha bisogno di corretta pianificazione.

Cioè, serve un pensiero, una capacità decisionale, un’idea di cosa fare sui versanti. E di cosa fare dei paesi montani che continuano a spopolarsi. Non servono solo soldi. Un piano forestale comunale o intercomunale (fatto da un’Unione montana, come scrive la legge regionale) costa come due ore di volo di canadair.

Da ultimo, provando ad andare oltre le polemiche delle ultime ore tra presenza o assenza delle istituzioni, è del tutto evidente che le «catene decisionali», il chi decide e il chi avverte chi, sono fondamentali e devono essere trasparenti per tutti, in primo luogo per i sindaci, «front office» in particolare nei piccoli Comuni. Quei sindaci, sarà pur vero che rappresentano solo 200 o 500 abitanti, ma sono anche alla guida di Comuni con centinaia di ettari di territorio da controllare e sono anche «sindaci» di migliaia di piante e di cinghiali e di caprioli. Hanno compiti di protezione civile e hanno come fondamentale interfaccia i volontari. Nei paesi delle valli sono tanti, formati, carichi di passione e impegno per il loro territorio. Sono una forza, anche per la prevenzione. Il Piemonte è tra le pochissime Regioni in Italia ad aver istituito vent’anni fa uno specifico corpo di volontari contro gli incendi boschivi, gli Aib. Ma nella «catena di comando» anche loro hanno registrato qualche sofferenza e incomprensioni. Dal 2017 il Corpo Forestale dello Stato è stato dismesso, personale e competenze sono passate in parte ai Carabinieri (sorveglianza) e in parte ai Vigili del Fuoco (lotta agli incendi). Dalla dismissione del Corpo Forestale, non è ancora stata attivata la Direzione generale Foreste presso il Ministero Politiche Agricole e Forestali, che è il soggetto in grado di garantire questo coordinamento. Questione di giorni dicono dal Mipaaf. Ma un Paese con dieci milioni di ettari di bosco, con le aree interne delle Alpi e degli Appennini così importanti, non ha più altro tempo.

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