Torniamo a dirci ciao

Il gesto dimenticato di cui dovremmo riprendere l'abitudine 

Parole chiave: Fraternità (9), confronto (9), dialogo (74), incontro (27)
Torniamo a dirci ciao

Incominciamo dal «ciao». Sì, torniamo al saluto secolare dei pellegrini: in casa, per strada, sul tram, sul metrò. Lasciamo decantare i vasi di rancore accumulati in questa estate furibonda e folle con gli attentati (da Barcellona a Turku, da Nimes a Londra); le minacce del dittatore coreano; le solite insensibilità europee; le altalenanti uscite di Trump; la rabbia nera per la cronaca di violenze; le delusioni per storie personali finite e anche male; la malinconica solitudine del ritorno alla normalità di una vita a volte crudele, altre perfida; la tristezza di malattie debilitanti e feroci. Torniamo a salutare. È il primo gesto per riprendere il cammino in una comunità che sarà sempre più colorata di razze, etnie, religioni.

«Ciao» è il segnale che arriva dal cuore. È quel guizzo in più che aiuta a vivere. Ci può introdurre al dono dell’accoglienza, dell’amore, della carità.

Abbiamo raggiunto, di nuovo, dopo dieci anni, i livelli di occupazione spazzati via dalle scatole di cartone della Lehmans Brothers. Certo lasciamo, accanto a noi, le macerie di una crisi senza cuore che ha falcidiato migliaia di famiglie, distrutto le serenità, seminato discordia, ma siamo qui per ricominciare un percorso che è un dono di Dio. I giorni africani che abbiamo vissuto, hanno marchiato la nostra fatica: di vivere e di credere con tanti se e tanti ma.

Però nella croce, il legno verticale ci porta a Dio, quello orizzontale abbraccia il nostro piccolo mondo, le nostre città, i quartieri, i paesi. E allora «ciao».

Quante volte passeggiamo per viali, per le vie, per la montagna, sui lungomare. Ci incrociamo con i volti di mille vite, cogliamo (a volte) gli oscuri rigurgiti di divisioni, di amori trasformati in odio o quel qualcosa di indefinito che blocca ed impedisce qualsiasi comunicazione che abbia un senso, vediamo solitudine e abbandono, miseria e povertà materiale e morale, ma non abbiamo la forza di reagire. Perché i nostri ragazzi quando si incontrano si salutano. Noi, spesso, no. E dopo, magari, stiamo pure male, ma restiamo zitti. Zitti di fronte alle palesi ingiustizie, zitti davanti ai soprusi, zitti di fronte alle barricate di odio che qualcun altro ha costruito. C’è stata una valanga di fango limaccioso, ingiusto e a volte anche becero, sulle Ong che in questi anni hanno cercato di trasformare il mare Mediterraneo, il mare dei fantasmi, in un porto sicuro per tanti disperati; c’è stato un crescendo di polemiche verso chi accoglie; c’è stato un silenzio assordante di fronte alle tragedie dell’Africa, ai drammi dell’America Latina, a chi in India continua a morire, solo, per strada a vent’anni dall’addio a Madre Teresa di Calcutta.

Ma allora perché non tornare a salutarci: in casa, sul pianerottolo dei palazzi trasformati in assurdi tabernacoli della privacy e della proprietà privata. Le nostre vite si stanno incredibilmente riempiendo di divieti, di cordoni, di catene, di luci infrarosse e led che segnalano intrusi.

Legalità, certo. Assolutamente legalità. Ma se vogliamo ritrovare il sorriso liberatorio, se cerchiamo di camminare seguendo quella croce che sale verticalmente e si incrocia orizzontalmente con le nostre emozioni, riprendiamo la vecchia, insuperata abitudine dei viandanti che all’alba, di notte, al tramonto incontrando «un altro» salutavano. Torniamo a dirci «ciao». Certo con questo non si risolvono i problemi che sono tanti e complessi. Ma è il primo passo. Poi verranno gli altri. La solidarietà nasce così: nei cortili dei condomini, nei porti, alle frontiere, nella reciprocità di un abbraccio: di profughi, di disperati, di familiari, di disoccupati, di persone che cercano speranza.

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