Relazione Garante della Privacy. I media siamo (diventati) noi

Le tecnologie digitali, al di là degli algoritmi, sono semplicemente il traslato della nostra coscienza. Sta a noi colorarle di bellezza o macchiarle di oscenità

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Relazione Garante della Privacy. I media siamo (diventati) noi

L’uomo, quindi, diventa il primo garante della privacy e di tutte quelle categorie prossime alla tecnologia. Ce lo chiede anche l’Autorità Garante quando ribadisce che “soltanto a partire da un forte impegno pubblico e privato nell’educazione civica alla società digitale e al pensiero critico” si potrà arrivare a costruire una cittadinanza (e un’umanità) mediale responsabile e autentica

Chissà se un giorno il web potrà essere raccontato come un luogo di relazioni feconde, di regole rispettate, di valori esaltati, di costruzione di bene. A oggi questo non è ancora possibile. È, infatti, tanto eloquente quanto implacabile la relazione del Garante della Privacy Antonello Soro esposta ieri, 6 giugno, a Montecitorio. Soro ha sintetizzato le attività dell’organo di garanzia per il 2016 delineando uno scenario complesso e, a tratti, sconvolgente.

Dalle “soverchianti schiavitù volontarie” cui rischiamo di rassegnarci in cambio di pseudo utilità e soddisfazioni che annullano la nostra libertà alla “de-umanizzazione” del lavoro causa macchine sempre più onnipotenti, fino alle tecnologie indossabili e innervate nella psiche e nella pelle,

il report sembra non lasciare scampo alla bellezza potenziale che gli spazi digitali possono esprimere.

Eppure leggendo in modo attento, il Garante coglie nel segno annusando il cambio di paradigma che sta investendo il rapporto tra media, uomo e società. Lo fa quando centralizza la riflessione sull’idea di libertà evidenziando come i dati costituiscano “la proiezione digitale delle nostre persone e insieme ne manifestino la vulnerabilità”. È l’uomo che affida al web “dubbi, speranze e timori”, esprimendo la propria personalità, i tratti positivi ma anche quelli ambigui. Lo fa con estrema normalità, con la naturalezza di colui che non si rende conto che, malgrado online e offline rappresentino un continuum dell’esistenza, ci sono comunque delle differenze sostanziali di cui tener conto. Tra queste – si legge nella relazione – “l’assenza di limiti, propria della rete [che] ha offerto infinite potenzialità di crescita e conoscenza, alle quali meno frequentemente si è accompagnato un corrispondente esercizio di consapevolezza e responsabilità”.

Gli esempi sono tanti e Soro li esplicita: la violenza verbale, l’esibizione online di omicidi e Blue Whale, il caso del momento che sa tanto di bufala eppure è diventato un fenomeno sociale da analizzare. E nonostante gli strumenti di contrasto ci siano e siano sempre più efficaci (si pensi alla recente legge italiana sul cyberbullismo), la relazione si riposiziona, in conclusione, sull’uomo citando il cancro della pedopornografia.

Soro cita ricerche secondo le quali questo crimine aberrante “sarebbe in crescita vertiginosa: nel 2016 due milioni le immagini censite, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Fonte involontaria sarebbero i social network in cui genitori postano le immagini dei figli”.

Per chi è impegnato in progetti di educazione mediale quest’affermazione rappresenta un conforto. Ma non solo. Abbatte barriere culturali e scioglie quei pregiudizi che considerano i cosiddetti giovani i colpevoli del male prodotto dalla rete. Quei giovani che chiamiamo nativi, che riteniamo onniscienti tecnologici di fronte agli adulti che dicono di non sapere e che, spesso, li accusano di isolarsi o di compiere azioni discutibili. E che, così facendo, si svincolano dalla responsabilità di educare. Quella responsabilità che la storia dei media ha man mano assottigliato. La tv (cattiva maestra) poteva essere spenta o si poteva cambiare canale.

I tempi e gli spazi di fruizione dei contenuti erano controllabili e misurabili. La cultura digitale scardina queste certezze e ci attribuisce ruoli che possono destabilizzarci. I media siamo (diventati) noi. Le tecnologie digitali, al di là degli algoritmi, sono semplicemente il traslato della nostra coscienza. Sta a noi colorarle di bellezza o macchiarle di oscenità. L’uomo, quindi, diventa il primo garante della privacy e di tutte quelle categorie prossime alla tecnologia. Ce lo chiede anche l’Autorità Garante quando ribadisce che “soltanto a partire da un forte impegno pubblico e privato nell’educazione civica alla società digitale e al pensiero critico” si potrà arrivare a costruire una cittadinanza (e un’umanità) mediale responsabile e autentica.

Fonte: Sir
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