I volti della festa

Il mondo che vogliamo 

Parole chiave: natale (44), chiesa (665), gesù (67)
I volti della festa

I volti del Natale scorrono uno dopo l’altro e sembrano, nei giorni di musiche e melodie dolci, immagini dure di un treno in corsa. Scorgo gli occhi di quindicimila minori che mamme e papà disperati hanno infilato soli su un barcone affidandoli a Dio, l’emergenza biblica, gli sguardi di un esercito di anziani che la vita, lentamente, priva dei colori, amicizie, compagni di viaggio. E stanno, spesso, nel desolante abbandono delle periferie di città e paesi e di quelle dell’esistenza; la malinconia di un ragazzino incrociato per caso accanto al padre che chiedeva la carità in una strada di Bruxelles, famiglie distrutte dalla crisi, donne uccise e violentate, cristiani perseguitati.

Facce, sguardi, occhi che fissano i mali più profondi delle nostre giornate, delle notti insonni, dei pochi attimi che dedichiamo a guardare le stelle. E tra le sfumature dei loro colori spesso tragici cerchiamo un segno, un gesto, un simbolo. Ce ne sono milioni sparsi per le vetrine scintillanti nelle strade super rischiarate da luci d’artista: oggetti, delicatezze, originalità, sorprese. E insieme corriamo come matti per prenderli e offrirli nel giorno della festa. Un attimo di tenerezza e via. Perché non è quello ciò che ci manca. Possono scaldare, forse per un attimo, il cuore indurito da una vita folle per sopravvivere ai contratti a chiamata, alla cassa integrazione, alla mobilità, ai licenziamenti, alle follie d’ogni mattina per arrivare in tempo con i figli allo scuolabus, in classe, al lavoro…

Ciò che vogliamo è il volto di quel bambino che duemila anni fa è nato fuori dalle mura della città, fuori dal villaggio, ma ha cambiato il mondo. Ora che usciamo con l’anima inaridita dal film che il mondo ogni giorno ci offre e da quelli che in tanti sappiamo imporre agli altri quando la lotta si fa dura; ora, appunto, cerchiamo una pausa per ricominciare.

C’è chi ha malati in casa e non ce la fa più, chi è malato dentro e arranca, chi vorrebbe stringere delle mani ma, anche a Natale, sarà in solitaria solitudine. C’è chi non ha lavoro, chi l’ha perso, chi è sfruttato, chi si sta rovinando la vita per trattenerlo ad ogni costo. C’è chi ha troppo ma vorrebbe ancora di più, chi non ha nulla e bussa alle Caritas, si ammazza per una panchina e, giorno dopo giorno, perde la dignità. Certo, c’è un popolo in cammino con tutte le gioie e le angosce immaginabili e non. In cammino verso dove? Segue una stella, quella che toglie il buio alla notte e lancia segnali, mentre ci indica la capanna di Gesù. Sono bagliori importanti. Arrivano una volta l’anno. Sono avvisi ai naviganti. Parlano di ritorno alla sobrietà e alla semplicità di vita; parlano di solidarietà vera, di condivisione. Dicono di no a muri e trincee, a profughi in campi privi di umanità. Chiedono di tornare alle radici.

Non vogliamo il Natale dei robot (premi uno, urla due, aspetta), non vogliamo il Natale che ci dice «respingi il diverso», «chiudi la porta all’immigrato, povero, sofferente, disperato, scartato», «ignora otto milioni di italiani sotto il livello di povertà», ma quello dei mille volti della società, felice o malata, nera o bianca, ricca o senza nulla, ma  «aperta», quello di Betlemme, scarno, povero, infreddolito, ma vero: il Natale di Gesù Bambino e quell’attesa ansiosa, libera e liberante, che aveva i valori, troppo spesso calpestati e dimenticati, del Natale dell’anima.

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