Foibe, un giorno da ricordare

L'atrocità della tragica pagina delle foibe come memoria costante perché non si ripetano mai più questi avvenimenti 

Parole chiave: foibe (1), istria (1), jugoslavia (1), titini (1), ricordo (5), comunisti (3)
Foibe, un giorno da ricordare

Quanto più si allunga il percorso di vita già camminato alle nostre spalle, tanto più si è portati a riflettervi, ad amarlo, a concentrarsi su di esso, a custodirlo nella memoria e nel ricordo. E tanto più ci si interroga su quanto esso contribuisca alla nostra identità. Da bambini, ragazzi, giovanissimi la nostra identità ci viene soprattutto dai nostri sogni; da grandi, essa viene (tanto) dai nostri ricordi.

E credo sia anche per questa ragione che, man mano che passano gli anni, sono sempre più consapevole della mia origine istriana, di quella parte delle mie radici che mi è sempre più cara ma che rimane anche un enigma. È un enigma in quanto è profondamente parte di me, ma nello stesso tempo non la conosco appieno. Non conosco tanto bene la bella terra istriana, con l'incanto dei suoi paesaggi, le sue ricchezze artistiche, il suo mare e i suoi pini; e la cultura da cui sono nata è ormai dispersa, semidistrutta, preservata nel ricordo testardo e appassionato di chi ne è impregnato e non vuole che muoia, ma difficile da ritrovare se non con uno sforzo consapevole.

E allora sempre di più ripenso alle figure dei miei nonni istriani, Andrea e Stefania, purtroppo mancati troppo presto perché io potessi assorbire, apprendere, amare e venerare tutto ciò che loro erano e tutto ciò che potevano insegnarmi. Ma tante cose me le ricordo.
Mi ricordo che ero convinta che i nonni non sapessero l'italiano, perché a me parlavano solo in dialetto istroveneto. Volevano trasmettermi la loro lingua, il tramite della loro cultura, e ci sono riusciti: per me l'istriano è una madrelingua, e le sue inflessioni fanno parte del mio vissuto. Era buffo, perché io dicevo "parlemo in indialetto": "indialetto" perché ero convinta fosse una sola parola ("parliamo italiano", "parliamo indialetto"...)...

Mi ricordo che la nonna, pur avendo abbandonato la sua amatissima terra per poter essere libera di essere italiana, come si sentiva e come era, tuttavia non aveva un briciolo di odio o risentimento verso le altre etnie e culture istriane; anzi, mi aveva anche insegnato le preghiere in croato (il Padre nostro, l'Ave Maria, il Gloria al Padre) e talora, durante le vacanze estive in montagna, dicevamo il rosario in croato, mentre lei mi insegnava a ricamare e sferruzzare.
Mi ricordo il nonno, vera incarnazione del principio istriano secondo cui "se ti voglio bene, ti do da mangiare; se mi vuoi bene, mangi tutto", un nonno amante della vita e delle cose belle, delle cose buone e dell'allegria; più passa il tempo, più riconosco in me molti tratti tipici suoi e della sua famiglia, tratti che sono anche schiettamente istriani.

Bastano, questi pochi ricordi e queste impressioni, a rendermi "istriana"? Forse sì, anche perché sono accompagnati da mille altri che non so definire ma che sento profondamente miei.

Basta, tutto ciò, a rendermi "esule"? Questa domanda è molto più grave e difficile. Per molti anni sono stata portata a dire no, e mi sembrava quasi una mancanza di rispetto verso gli esuli "veri" se mi fossi appropriata di questo appellativo non meritato. Però, ogni tanto, ci penso e mi dico: la tragedia dell'esilio io non l'ho vissuta sulla mia pelle; ma essa fa parte del vissuto della mia famiglia, e, perciò, anche del mio. Lo dico soprattutto perché riconosco la cicatrice della perdita e dell'abbandono non solo nella vita delle persone a me care che l'hanno sperimentato sulla propria pelle, ma anche nella mia stessa vita; riconosco che la paura di "lasciare ogni cosa diletta più caramente", la paura di sentirsi sospesi ad un filo, di perdere ciò che si ama, è profondamente scritta nella nostra identità.

Ovviamente, come tutte le paure, si cerca di combatterla, di vincerla, di non lasciarsene sopraffare; ma è innegabile che essa è scolpita nel nostro cuore, nella nostra identità. Forse, anche questa è una missione: anche noi che non abbiamo vissuto il dramma dell'esodo direttamente portiamo le tracce di questa cicatrice affinché impariamo a non dimenticare e a non far dimenticare quanto è accaduto. Questo dolore che non se ne va è un appello a ricordare, a trasmettere la memoria di chi ha perduto la vita nelle foibe, di chi ha perduto i propri cari, di chi ha lasciato la propria terra, magari trovando la morte nella fuga, oppure - come i miei nonni - trovando miseria, disprezzo, solitudine. A loro dobbiamo il nostro ricordo, e cercheremo di esserne degni.

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