Brexit, un negoziato tutto in salita

Intervento - Tra rimpianti e polemiche il distacco del Regno Unito dall'Unione europea appare un viaggio verso una destinazione ignota. L'analisi di Edoardo Greppi, docente di Diritto internazionale all'Università di Torino

Brexit, un negoziato tutto in salita

Il 19 giugno scorso è partito il negoziato che condurrà alla cosiddetta Brexit, il recesso del Regno Unito dall’Unione europea. A condurlo saranno David Davis, segretario di Stato del governo britannico «per l’uscita dall’Unione europea» e Michel Barnier, francese, capo negoziatore europeo.

Gli statisti padri fondatori non avevano voluto includere nei trattati istitutivi delle Comunità europee degli anni Cinquanta una clausola di recesso, una norma che consentisse a uno Stato membro di abbandonare il processo di integrazione e di lasciare le Comunità. Questa scelta rifletteva la concezione di un processo irreversibile, la volontà di progredire verso l’obiettivo di realizzare un’unione di tipo federale, una sorta di Stati Uniti d’Europa. Si riteneva che un’unione di questo tipo non fosse compatibile con forme di divorzio di uno dei contraenti. Con il trattato di Lisbona si è sciaguratamente introdotta, all’art. 50, quella clausola di recesso che Monnet, Schuman, De Gasperi, Adenauer e gli altri statisti non avevano voluto.

Per decenni il processo di integrazione è progredito su due binari: l’approfondimento dell’integrazione e l’allargamento della sfera degli Stati membri (dai sei originari, a nove, poi a dieci, poi a dodici, a quindici, venticinque, ventisette e ventotto). Altri Stati bussano insistentemente alla porta dell’Unione. Nel giugno 2016 il governo di uno degli Stati maggiori, il Regno Unito, ha accettato di celebrare un referendum popolare avente ad oggetto la permanenza di quel grande Paese nell’Unione. L’esito è stato surreale: chi lo voleva non si aspettava di vincere, e chi è stato sconfitto fino a poche ore prima della pubblicazione dei risultati non si aspettava di perdere.

Sono i limiti della democrazia, che affida scelte politiche così delicate e foriere di gravi conseguenze a un elettorato privo degli strumenti per comprenderne tutte le implicazioni. Con grande saggezza i nostri padri costituenti hanno previsto nel 1947 il divieto di assoggettare a referendum abrogativo le leggi di autorizzazione alla ratifica (e di esecuzione) dei trattati internazionali. Già i governi francese e olandese avevano sperimentato la sconfitta nel referendum relativo al trattato costituzionale del 2004. Sulla base di campagne fondate su argomentazioni discutibili e sullo spregiudicato appello “alla pancia” di elettorati sensibili alle ondate travolgenti del populismo, risicate maggioranze di quorum votanti bassissimi cancellano anni di impegno in una costruzione faticosa e ispirata, voluta da statisti lungimiranti. Negli anni precedenti, si era ripetutamente evocata anche una possibile Grexit, con l’abbandono al suo destino della Grecia del debito scellerato e irresponsabile e della disastrata economia (vittima in primo luogo di classi dirigenti inadeguate e corrotte). Anche questo sarebbe stato in palese contraddizione con la vocazione più genuina dell’Unione europea.

Ora i giochi sono fatti, e con il contorno di rimpianti, recriminazioni, polemiche che accompagna la Brexit, il negoziato per un divorzio consensuale è partito. Sarà un viaggio travagliato, perché si è partiti male e non si arriverà bene. All’indomani dell’esito del referendum, a Londra si è cominciato a parlare della possibilità di qualche ‘distinguo’, mirante a realizzare un’uscita soft, in contrapposizione a una hard. Questa comporterebbe la necessità di trovare soluzioni per mantenere il Regno Unito nel mercato unico europeo o, almeno nell’unione doganale. Il primo ministro Theresa May ha ripetuto «Brexit means Brexit», uscire significa uscire. Sperava di avere dalle elezioni anticipate un mandato forte per la versione hard, con lo slogan che «nessun accordo è meglio di un cattivo accordo». Il risultato elettorale è stato modesto. Ora deve fare i conti con un’Ue che, giustamente, ribatte che chi è causa del suo mal pianga se stesso. Il popolo britannico ha scelleratamente fatto una scelta miope e sbagliata. Gli altri 27 partner e le istituzioni europee non intendono aiutare quel governo a cavare le castagne dal fuoco, e il 29 aprile il Consiglio europeo a 27 all’unanimità ha varato le linee guida per un negoziato senza sconti.

I legami di uno Stato membro con l’Unione europea sono fittissimi e intricati, e non sarà facile scioglierli senza lacerazioni, e la signora May guida un governo debole e con un Parlamento diviso, nel quale non c’è compattezza nei partiti maggiori. Inoltre, la May non è certo una statista, né il leader per tempi difficili, il Winston Churchill che occorrerebbe a un Paese disorientato e confuso.

Il governo britannico mira a tenere insieme due partite diverse: il negoziato per l’uscita e quello per le future relazioni tra un Paese che lascia e l’organizzazione sovrannazionale che tiene uniti quelli che restano. L’Ue ribatte che sono due tavoli distinti. Prima occorre concludere il primo, e risolvere questioni delicate: il conto da pagare per fare fronte alle obbligazioni finanziarie britanniche (almeno 60 miliardi di euro secondo Bruxelles); le garanzie da offrire ai cittadini europei nel Regno Unito e a quelli britannici sul continente; le modalità della circolazione delle persone e del diritto di stabilimento; cittadinanza, residenza e rapporti famigliari; i confini terrestri da gestire (con l’Irlanda, con Gibilterra); il riconoscimento di qualifiche accademiche e professionali; la giurisdizione della corte di giustizia dell’Ue. Immigrazione, rapporti commerciali, cooperazione militare e difesa dovranno, poi, essere oggetto del negoziato sul futuro delle relazioni bilaterali tra l’Ue e un Paese terzo. In proposito, i modelli evocati sono numerosi, e riguardano tra gli altri Svizzera, Norvegia, Canada, Turchia, Hong Kong.

La Commissione europea e alcuni governi (quelli tedesco e francese in primis) hanno precisato a muso duro che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, i vantaggi del mercato (vitali per una potenza commerciale come il Regno Unito) disgiunti dagli obblighi in materia di libera circolazione delle persone. Sarebbe troppo comodo abbandonare un club e pretendere di continuare a godere dei suoi benefici.

Gli argomenti usati dai favorevoli a rimanere nell’Unione erano e restano solidi: libero commercio con il mercato più grande del mondo; il diritto di partecipare da protagonista alla presa delle decisioni sulle regole e sul futuro del continente; il diritto di risiedere, lavorare, studiare e andare in pensione ovunque in Europa; l’assistenza sanitaria gratuita quando si è in viaggio per lavoro o turismo; norme giuridiche europee a protezione dei lavoratori e dei consumatori; una fitta rete di collaborazioni tra università, scienziati, medici, professionisti; difesa e sicurezza comune.

Insomma, è partito un negoziato tutto in salita, e il Regno Unito ha una macchina arrugginita, poca benzina e un guidatore inesperto e fresco di patente. Un buon accordo è necessario, perché è impensabile un’Europa senza i sudditi di Sua Maestà britannica: saremmo tutti più poveri.

Nel 1972 (l’anno della «Britain in», che sembra lontano anni luce dalla Brexit), sir Andrew Shonfield, Direttore del Royal Institute of International Affairs, tenne alcune conferenze alla Bbc, che furono poi pubblicate in un volumetto dal titolo «Europe: Journey to un Unknown Destination». Invocava l’importanza e la difficoltà di dotare di legittimità democratica «il mostro che stiamo creando», e la mole delle sfide che l’adesione alle Comunità europee implicava. Ora più che mai il Regno Unito è in un «viaggio verso una destinazione ignota», e la Manica appare avvolta in una fitta nebbia.

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