Bevo rum, fumo crack, faccio rap

Una riflessione critica e amara su certi atteggiamenti che influenzano il mondo giovanile

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Bevo rum, fumo crack, faccio rap

Una recente indagine dell’associazione Hope tra i partecipanti agli oratori estivi 2017 di età compresa tra gli 11 e i 13 anni ha consentito di gettare un fascio di luce sui loro idoli musicali: si è così scoperto che le femmine sono più interessate alle pop-star americane come Ariana Grande, Miley Cyrus, Selena Gomez e Katy Perry, che in comune hanno atteggiamenti provocanti e sessualmente fluidi, mentre i maschi seguono i T-Rapper italiani come Dark Polo Gang, Ghali, Sfera Ebbasta e loro storie di droga, sesso e violenza. Finita l’estate, una nuova ed analoga indagine effettuata a pochi giorni dalla riapertura delle attività, ha permesso di approfondire le preferenze artistiche dei ragazzini che incontriamo in parrocchia e che presentano aspetti, se possibile, ancora più problematici di quanto non si fosse già rilevato. Per capire di cosa si tratta, analizziamo la canzone in due tempi Verano Zombie Verano Zombie 2 di Noys Narcos e Gemello. Anche in questo caso, i testi sono in italiano: non sembri poco, questo, perché il gergo del rap e dell’hip-hop americani sono difficilmente comprensibili, mentre in italiano il messaggio arriva chiaro e <spacca>. Ecco, dunque, un breve quanto illuminante inventario dei contenuti che passano anche nei cellulari di ragazzini di prima media. 

L’alcol e la droga, consumata o spacciata, sono il fil-rouge narrativo: da “Bevo rum, fumo crack, faccio rap” usato come ritornello canticchiato dai ragazzini, a “ti insegno a cucinare la pippata [cocaina] con il bica[bicarbonato]” per formare il crack; da “vuoi vedere i mostri uscire dal tuo stereo? Fatti una grossa botta d’ero”, a “ho la riserva di pasticche per l’inverno”. Anche lo spaccio è narrato come azione ordinaria, normale, anzi, normalizzata dal ritmo musicale: assumere droga “è il fattaccio: è che senza non ce la faccio, spaccio”.

Ma è la violenza bruta che davvero stupisce di sentire nei cellulari dei ragazzini dentro i locali di una parrocchia: da “paga le tue colpe, spara a tua moglie” a “entro in discoteca con un mitra e ammazzo tutti, prendo la percentuale sopra tutti i lutti” che rievoca azioni criminali non certo frutto di una fantasia letteraria con l’aggiunta dello spregio per le vittime.

Nei confronti della donna, poi, c’è un accanimento narrativo particolare che la rende non solo oggetto, ma oggetto usato e maltrattato come nella frase “ti metto incinta sulla ruota di Coney Island [un Luna Park]”. In un crescendo concettuale, si consiglia pure il suicidio (“buttati di testa sul cemento a Caracalla”) e di andare con una prostituta per ammalarsi di AIDS, chiamato in gergo “il violone”, nome che deriva dallo spot degli anni Novanta che circoscriveva le persone malate con un alone viola, il violone, appunto. Ce ne sarebbe a sufficienza, ma forse è la frase “scambio Satana per Cristo” che può motivare il ribaltamento valoriale di questo tipo di proposte rispetto non solo all’educazione cristiana -nei cui luoghi sono state trovate- ma anche a un minimo progetto educativo finalizzato alla convivenza sociale.

Purtroppo, che lo si voglia o meno, chi va col lupo impara a ululare se nessuno gli insegna a parlare; chi va con lo zoppo impara a zoppicare, se nessuno gli tiene la mano e lo aiuta a camminare correttamente. È quindi essenziale, in ogni piano educativo e pastorale, porsi l’obiettivo primario di conoscere i compagni digitali dei ragazzini, sempre più bambini, lasciati soli ad affrontare un mondo disinteressato al loro bene. Possiamo, onestamente, fare ancora finta di nulla?

 

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