Cottolengo, qui non esistono malati impossibili

Intervista a don Carmine Arice, cottolenghino, direttore dell'Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei, che racconta la Piccola Casa della Divina Provvidenza e l'accoglienza della vita dolente, quella che la società fa più fatica ad accettare 

Parole chiave: intervista (13), fine vita (6), malati (12), Cottolengo (29), Torino (730)
Cottolengo, qui non esistono malati impossibili

Nel cuore di Torino da 185 anni c’è una città nella città che ha scelto di mettere al centro le persone che agli occhi della società non contano più nulla. È la Piccola Casa della Divina Provvidenza, fondata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo, casa di vita soprattutto, dove grazie ad uno stile di prossimità ed accompagnamento ogni ospite riesce a trovare il senso alla propria vita.

C’è Valter (il nome è di fantasia), senza braccia e senza gambe, che con la sua sedia a rotelle «speciale» ogni giorno accoglie ospiti e pellegrini, svolge numerosi lavori di servizio utili alla famiglia della Casa, ha ritrovato il senso pieno alla sua vita. Sono tante le storie come questa, tutte accomunate dal forte legame con la vita anche nelle condizioni più disperate sia a livello fisico che esistenziale.

I numeri della Piccola Casa sono imponenti: duemila residenti fra ospiti e religiosi. L’ospedale dispone di 203 posti letto con oltre 7.000 ricoveri all’anno. Oltre 400 anziani sono accolti nelle strutture Rsa nei padiglioni all’interno della Casa di via Cottolengo. Superano i 1.200 i volontari, oltre al personale medico, paramedico, a operatori e specialisti di ogni ambito. La casa di accoglienza per senza fissa dimora ospita ogni anno 6.000 persone e distribuisce 130 mila pasti all’anno (circa 450 ogni giorno).

Abbiamo chiesto a don Carmine Arice, cottolenghino, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza episcopale italiana, origini pugliesi, torinese di adozione, formatosi proprio al Cottolengo di Torino, di aiutarci a capire in cosa consiste il «segreto» della Piccola Casa.

arice

Don Arice, al Cottolengo sono accolti i malati «più difficili» che vivono in condizioni estreme di sofferenza fisica ed esistenziale ed è proprio da loro che arriva un forte messaggio di vita, come mai?

Al Cottolengo la parola carità si cerca di declinarla a tutto tondo. Carità significa accompagnare, prendersi cura, accettare l’altro così com’è, compatire nel senso più bello del termine, «patire insieme», in comunione di vita. Tutto questo permette di creare un ambiente che non è solo di tipo assistenziale ma è anche e soprattutto luogo dove si fa un’esperienza di amicizia, di prossimità, di relazione e dunque dove anche la fragilità della vita viene condivisa.

Il segreto è proprio questo: che la persona non si senta soffocata dalla sua situazione, non si senta un peso, ma venga riconosciuta nella propria dignità. Solo così ci sono le condizioni per un possibile cammino di vita insieme.

Certamente non è facile. Al Cottolengo si trovano persone con una storia pesante, difficile sia da un punto di vista fisico che esistenziale; eppure normalmente queste persone si sentono degne di stare a questo mondo proprio perché accettate, amate, e accompagnate passo passo, giorno dopo giorno. Sono tante le domande di senso che emergono, anche dai familiari, sul perché di certe situazioni. Ecco allora la responsabilità della comunità cristiana e della società civile di accompagnare le persone fragili in questo difficile percorso e forse proprio a partire da queste legittime domande di senso.

«Accompagnare»: è questa una delle «terapie» centrali per la cura?

Al Cottolengo si va oltre il principio dell’assistenza. O meglio lo si comprende nella sua globalità: anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre! Prendersi cura del povero, del malato, del disabile significa offrire un’attenzione personale e personalizzata alla situazione concreta nella quale esso si trova nella sua individualità.

Vede, il concetto di «qualità di vita», oggi molto considerato dalla cultura sanitaria e assistenziale,  potrebbe indurre, come ha sottolineato Papa Francesco, ad usare un criterio di misura esterno alla persona in grado di  giudicare quando la vita è degna di essere vissuta e quando non lo è! Forse è meglio avere una visione antropologicamente più corretta: partendo dal presupposto che la vita è sempre degna di essere vissuta, cercare tutto il bene della singola persona nella sua concreta situazione (ovvero il suo bene psicologico, intellettivo, di cura, relazionale, spirituale); ecco che allora cambia la prospettiva. Di ogni persona occorre cercare tutto il bene concretamente possibile perché possa percepire il suo valore e sentirsi degna di stare a questo mondo. È la qualità della relazione, infatti, che fa percepire all’altro che la sua condizione non è un peso. Certo la parola «accompagnare» deve tenere conto di tutte le risorse disponibili, anche economiche, non lo metto in dubbio; ma non può essere mai l’economia a giudicare se può finire o meno una vita. La cura necessaria, ribadisco, sempre possibile anche quando viene meno la possibilità di guarire, non può essere determinata dalla presunta scarsità di risorse disponibili. Forse sarebbe più giusto riflettere su cosa significa allocazione etica delle risorse.

Allora veramente il verbo «accompagnare» è il verbo principale dell’umano, dell’uomo in quanto uomo, non solo del cristiano. Papa Francesco con il suo pontificato continua a dirci che non può esserci nessuna situazione della vita delle persone che non debba essere presa in carico totalmente dalla comunità cristiana e dalla società civile, con uno stile di misericordia.

La mission del Cottolengo come può diventare modello nella vita sociale?

Come aveva già affermato Papa Benedetto XVI, e come è stato ribadito tante volte anche da Papa Francesco, «una società che non si prende cura delle persone povere e sofferenti è una società crudele e disumana».

È dunque necessario, come si prova a fare, pur con tanti limiti al Cottolengo, favorire un’alleanza terapeutica, una rete fra i vari soggetti preposti alla cura per accompagnare le persone bisognose o malate nella loro integralità. Prendersi cura dell’altro sul serio richiede un’attenzione «alle biografie plurali delle persone», come sostengono gli esperti: attenzione alla biografia biologica, ma anche a quella affettiva, cognitiva,  professionale, sociale e spirituale.

Da 180 anni la Piccola Casa sta provando a fare questo, animata dallo spirito del fondatore: offrire una «Casa» e non solo assistenza, fondata sulle relazioni familiari perché, come in una vera famiglia, ci si faccia carico dell’altro soprattutto nei momenti di difficoltà e fragilità. Sono le relazioni familiari fra gli abitanti del Cottolengo che caratterizzano questa istituzione.

Lo scorso anno nella Piccola Casa è stata aperta la Porta Santa della misericordia in occasione del Giubileo. Il pellegrinaggio fu incessante tutti i giorni dell’anno. L’Arcivescovo mons. Nosiglia all’apertura della Porta definì il Cottolengo «luogo privilegiato della misericordia di Dio». Perché?

Al Cottolengo ciò che fa vivere e allontana la ricerca della morte, anche nelle situazioni apparentemente più disperate, è il forte senso di dignità che proviene proprio dall’amore che si riceve. E sappiamo che questo amore nella Parola di Dio viene descritto come misericordia. Nella Piccola Casa si cerca di mettere ognuno nelle condizioni di dare senso alla propria giornata. I malati, gli anziani, i poveri, alla luce degli insegnamenti del Santo sono considerati parte viva della Casa e non solo destinatari del servizio. Siamo convinti che anche loro hanno una missione che può dare senso e voglia per svegliarsi ogni mattino e affrontare la giornata.

Dunque non sono solo le terapie che tengono in vita.

Le terapie mediche sono importanti ma da sole non bastano. Sempre di più si comprende la fondamentale necessità di avere esperti nell’arte della relazione con le persone fragili. Il Cottolengo aveva capito bene che gli strumenti che la Provvidenza usa per poter dire a ogni creatura che è amata e voluta da Dio sono le braccia, i cuori e le mani degli operatori. L’insistenza del Santo torinese ad essere per i poveri padri, madri, fratelli e sorelle sottolinea proprio la capacità di relazione affettiva ed effettiva per testimoniare loro l’amore provvidente di Dio.  Altrimenti tutto rimane solo una teoria, un bel discorso.

Lei insieme a don Lino Piano, superiore generale della Piccola Casa, accompagnò Papa Francesco in visita al Cottolengo il 21 giugno 2015 nel suo viaggio pastorale in occasione dell’Ostensione della Sindone e del bicentenario della nascita di san Giovanni Bosco. Una visita fatta di gesti, che significato ha avuto per la Piccola Casa?

Papa Francesco in quell’occasione tenne un discorso di pochi minuti, e poi per altri 45 si fermò a salutare uno ad uno i malati, gli anziani, i poveri, alcune persone disabili che frequentano le nostre scuole con i loro familiari. Si tratta dell’«enciclica dei gesti» che il Papa compie al termine di ogni udienza generale e di ogni incontro, riservando un tempo ai malati e alle persone disabili sempre superiore a quello dedicato ai discorsi. Sono incontri personali che tanto fanno pensare alla medicina personalizzata di cui si parla molto oggi in ambito terapeutico. Guardare negli occhi la persona he incontri, ascoltarla, dandole tutto il tempo necessario, senza fretta. Quanto è importante questo aspetto perché l’altro percepisca il suo valore e non senta di essere solo un peso sociale o economico, un fardello troppo pesante per gli altri. Una sensazione che può portare qualcuno addirittura a cercare chi sia disposto ad accompagnarlo a morire piuttosto che a vivere fino al compimento dei suoi giorni. 

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