Libia, da Sirte il racconto degli esiliati fuggiti dall'Isis

Intervista al presidente del Consiglio locale della città libica, ex roccaforte di Gheddafi, oggi "capitale" dello stato islamico in Libia

Parole chiave: sirte (1), libia (3), isis (33), guerra (63), profughi (55), islam (60)
sirte, libia

Un mucchio di rovine. Abdulfatah Al Sawi mostra le foto della sua casa distrutta dalla dinamite dei jihadisti nel giugno 2015, pochi giorni dopo aver lasciato Sirte. È una questione di vita o di morte. Tre mesi prima, combattenti Daesh avevano ucciso suo fratello nel pieno centro di Sirte. Nel mese di maggio, i miliziani della Brigata 166 di Misurata , acquartierati nella parte occidentale della città, avevano lasciato l'area. L'organizzazione jihadista aveva potuto così completare la sua installazione nella culla natale della tribù di Gheddafi.

Daesh ora controlla oltre 200 chilometri di costa, con il valore aggiunto di un porto, un aeroporto e una centrale elettrica. Sirte vive sotto il dominio di un wali (amministratore), capi militari sauditi e iracheni. «Una città fantasma», dice Abdulfatah Al Sawi, presidente del Consiglio locale di Sirte, che ora vive con la sua famiglia a Misurata.

Le banche sono chiuse, nelle scuole è proibito insegnare materie «non islamiche», come la matematica e le lingue straniere. Le donne non escono, se non con un velo integrale e i negozi di abbigliamento alla moda sono stati chiusi. Pattuglie della Hisbah, una polizia di moralità, raccolgono le tasse imposte sui commercianti e vanno a caccia dei recalcitranti alle regole della Sharia.

Nel mese di gennaio 2016, secondo l'organizzazione Libya Body Count, Daesh (Isis) ha già ucciso dieci persone. Nel 2015, l'anno dell’arrivo dei jihadisti, la città ha visto un picco di violenza con 253 morti, contro i 39 nel 2014.

«Al suo arrivo, Daesh ha rifiutato il dialogo e praticato la taqiya (la “virtù” islamica della dissimulazione ndr) per nascondere i suoi obiettivi», dice Abdulfatah Al Sawi. «Una guerra è iniziata all'interno della città. Il consiglio si è diviso. Dei suoi 22 membri, quattro o cinque si sono uniti a loro. Oltre il 60 per cento dei 70 mila abitanti ha lasciato la città per rifugiarsi nell’Est o nell’Ovest del Paese o in località vicine». (copyright "La Croix").

L'intervista completa sul Nostro Tempo del 10 Aprile

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