Erika medico torinese per tre mesi in Uganda

Erika è un medico torinese. Tornata dopo tre mesi di servizio in Uganda racconta la sua esperienza accanto ai bimbi.

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Erika medico torinese per tre mesi in Uganda

Ottobre 2014. Parto per il mio viaggio, uno dei miei sogni nel cassetto: andare in Africa a lavorare con i bambini in un ospedale. Come sempre la realtà supera l'immaginazione.

Mi chiamo Erika, ho 30 anni, sono al quarto anno di specializzazione in Pediatria e lavoro all'Ospedale Infantile Regina Margherita. Sono partita per l'Uganda, con l'associazione Idea Onlus di Torino, per vivere un'esperienza di cooperazione sanitaria in un ospedale rurale nel villaggio di Matany, in Karamoja (nel nord est, al confine con Sudan e Kenya), una fra le regioni più povere di tutta l'Africa. L'Ospedale Saint Kizito è stato fondato nei primi anni ’70 dai missionari comboniani, è una struttura privata che svolge un servizio di utilità pubblica (private not for profit), considerata un modello di efficienza dal Ministero della Sanità Ugandese. L'ospedale è costituito dai reparti principali: medicina, chirurgia, maternità, pediatria, reparto tubercolosi, sala operatoria, laboratorio, radiologia e ambulatori.

Io ho lavorato principalmente nella pediatria dell'ospedale, affiancando un medico locale ugandese, Dr. John, un uomo retto e motivato, che mi ha insegnato moltissimo, primo fra tutto a guardare il paziente in faccia, prima di saperne la storia. Con il personale locale mi sono trovata molto bene e sono stata accolta come a casa fin dall'inizio.

Quando è morto il primo bambino davanti a me sono andata a cercare conforto da una delle infermiere del reparto e lei mi ha detto «Doctor, it happens» (dottore succede). Ho sentito tutta la potenza della morte e la forza della vita che in un intreccio senza soluzione di continuità si mostravano davanti ai miei occhi così come sono: l'una la continuazione dell'altra. Un filo che non si può spezzare. Sono morti tanti bambini in quei tre mesi, troppi, non mi sono abituata per niente. Non sono abituata alla morte, neanche a casa mia. Ma lì la fatica grande è non sapere il perché. Nella maggior parte dei casi le cause di malattia e morte erano ignote. La diagnosi: un miraggio. I pazienti che non riuscivamo a gestire a Matany potevano essere trasferiti in un ospedale più attrezzato, a Gulu o a Kampala. Ma il trasferimento era a carico dei parenti e le famiglie quasi mai avevano i soldi per andare. E quindi si portavano i bimbi a casa, a morire. Ho capito, in Karamoja, che se non c'è qualcuno che si prende cura di te, tu muori, da solo.

Io non sono stata mai da sola, invece. Vivevo in una casa adiacente all'ospedale, con altri tre europei, Angela, Simonetta e Stefano: sono stati la mia famiglia per qualche mese e con loro ho condiviso tante fatiche e gioie, l'inferno e il paradiso, che ogni giorno riempivano la mia giornata.

Karamoja: savana a perdita d'occhio, terra di pastori seminomadi, di uomini e donne alti e bellissimi, di bambini, tanti e scalzi. Avrei voluto che le persone a me più care potessero essere nei miei occhi quando guardavo questa gente capace di sorridere con tutto il corpo, pur segnato dalla vita, dalla fame e dalla malattia. Nelle mie orecchie quando ascoltavo i corvi in fuga dalle fronde davanti a casa, i rumori della vita brulicante del villaggio nelle prime ore del giorno, i canti di festa dei ragazzi della scuola infermieri, il suono dolce del silenzio, un silenzio vero, cercato, trovato e vissuto sotto un tappeto di stelle. Nelle mie mani che toccavano quei bambini sporchi e magretti, nei miei vestiti troppo belli per loro, nella mia pelle troppo bianca da far paura e curiosità, nel mio cuore toccato da tante emozioni, difficili da raccontare.

Tre mesi non bastano per conoscere l'Africa, probabilmente non basterebbero 30 anni. Ma l'intensità e la pienezza di ogni giorno vissuto in quella terra continueranno a nutrirmi, credo, per tutta la vita.

Il privilegio che ho, con il mio lavoro, di stare vicino a chi soffre, è un regalo grande. E mi sento fortunata di aver potuto condividere questo dono con Nalem, Jacinta, Patricia, Akiteng e tutti i bambini che ho incontrato sulla mia polverosa strada africana.

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