Tg, talk show, réportage: la tv di qualità non è morta

Intervista a tutto campo con il direttore di Tv2000 Paolo Ruffini, dopo la presentazione dei nuovi documentari della rete

Parole chiave: ruffini (1), tv (6), informazione (10), tv2000 (1)
Tg, talk show, réportage: la tv di qualità non è morta

«I talk show hanno stufato i telespettatori? Secondo me no. In ogni caso, non è corretto porre la questione in questi termini. Il dialogo con il pubblico televisivo resta necessario, ad aver stufato, semmai, è il “parlare piatto”, la chiacchiera che gira a vuoto, la propaganda mascherata per informazione. C’è un “come” oltre a un “cosa”, nel nostro mestiere, che non va mai dimenticato. C’è modo e modo di affrontare certi argomenti di fronte alle telecamere. Il punto, dunque, non è se sia lecito o no intervistare in un salotto televisivo dei presunti delinquenti o i loro parenti, ma come lo si fa, a quali regole deontologiche si fa appello in quelle circostanze».

A parlare è Paolo Ruffini, direttore di rete di Tv2000 (l'emittente della Conferenza episcopale italiana), un lungo e stimato percorso professionale, in passato, che lo ha visto già direttore di Raitre e a La7. Parole chiare, quelle di Ruffini, specialmente sui fronti “caldi” dell’attualità, oltre che sulle novità di Tv2000: i documentari di propria produzione presentati in anteprima, lo scorso 10 settembre, alla Mostra del cinema di Venezia.

Direttore, si parla spesso di etica delle immagini: un concetto talvolta calpestato dalla necessità, peraltro comprensibile per i mezzi di comunicazione di massa, di “stare sulla notizia”, di parlare di ciò di cui parla la gente, di utilizzarne lo stesso linguaggio. Per la tv, come per gli altri media, qual è il confine che non si deve superare? Dove può essere situato il limite tra informazione e intrattenimento?

Il limite è nelle nostre coscienze: non bisogna mostrare ciò che coltiva in noi il voyeurismo, ciò che specula solamente sulle disgrazie altrui. Ma è doveroso, al contrario, aprire gli occhi per nutrire le coscienze. Vedere l’immagine del piccolo Aylan, il bimbo siriano di tre anni morto annegato sulle coste turche nel tentativo di raggiungere l'Europa, è servito proprio a questo scopo. Non pubblicare quella foto sui giornali sarebbe stato come mettere la testa sotto la sabbia, far finta che nulla fosse successo. E invece no, la verità è che non siamo più abituati a guardare persone che dormono rannicchiate e infreddolite sotto i portici delle nostre città, acquistiamo sempre più vestiti fabbricati da bambini sfruttati in tante parti del mondo senza nemmeno andare a leggere l’etichetta di provenienza di quei capi d’abbigliamento e, magari, fare un passo indietro. Anche le immagini più terribili possono servire a farci crescere eticamente e moralmente, e alcune di queste sono passate alla storia, come quella della bambina simbolo della guerra in Vietnam o del bimbo con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia. Sono istantanee che interpellano tutti, nessuno escluso. E non ci consentono di voltare lo sguardo dall’altra parte.

leggi l'intervista completa su il nostro tempo del 20 settembre

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