Referendum: le ragioni del No

Perchè questa Riforma non convince il parere di un padre nobile del cattolicesimo democratico

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Referendum: le ragioni del No

All'inizio della competizione sulla riforma costituzionale promossa per rinnovare le istituzioni e rafforzare il ruolo del premier, Matteo Renzi si attendeva un plebiscito. Ma il contrasto tra il «Sì» ed il «No» si è subito radicalizzato, anche perché con le elezioni amministrative di giugno e con l'imprevisto successo del Movimento 5S, il Paese è passato dalla fase del bipolarismo destra-sinistra ad una fase tripolare, con tensioni che hanno modificato in profondità l'orizzonte politico.

Anche per questa ragione è diventato più difficile motivare il proprio voto su un progetto che incide sulla qualità della democrazia, a chi non lo fa con riferimento ad uno schieramento, ma motiva il suo voto sulla base di quello che si può definire «patriottismo costituzionale». Io voterò «No» anche per evitare che questo referendum, contro la migliore delle intenzioni di amici che voteranno «Sì», favorisca la scalata al potere di ammucchiate trasformiste che riporterebbero questo Paese ai tempi dell'Italietta pre-fascista.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che è stato il voto di Roma e di Torino a convincere il Pd a promettere la correzione dell'Italicum e a riconoscere che la personalizzazione del potere, immaginata come la più solida garanzia per la governabilità, può rivelarsi una minaccia per la democrazia rappresentativa.

Vengo così ad alcune riflessioni ‘sul merito’ della riforma costituzionale. Superare il bicameralismo paritario, assegnare il voto di fiducia alla sola Camera dei deputati, era il primo obiettivo della riforma. Ma anche questa legislatura ha dimostrato che i tempi dell'attività parlamentare dipendono dalle scelte del governo, dalla coesione della maggioranza, dai regolamenti parlamentari, più che dal bicameralismo. D'altra parte, la riforma non abroga il Senato, che resta in vita come «Senato consultivo», con un insieme di competenze che complicheranno inutilmente l'iter legislativo.

È peraltro più importante riflettere sulla composizione del nuovo Senato e sul sistema di elezione dei nuovi senatori. La scelta dei 73 senatori assegnati alle regioni, avverrà ‘dall'alto’, senza rispettare il diverso peso di queste realtà territoriali, ma soprattutto in evidente violazione della sovranità che «appartiene al popolo». Anche i 22 sindaci-senatori saranno scelti dai consigli regionali, non con un secondo turno tra i sindaci: chi rappresenteranno questi senatori, se non le oligarchie che li hanno scelti? La riduzione del numero dei senatori e dei relativi costi, non giustifica una riforma che calpesta la sovranità costituzionale che «appartiene al popolo». 

Quanto al Titolo V, dobbiamo chiederci: perché le Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli, Valle d'Aosta) vedono addirittura rafforzati i loro privilegi, mentre vengono indebolite le Regioni a Statuto ordinario? Con questa decisione crescono diseguaglianze istituzionali sempre meno giustificabili. E cresceranno le tensioni tra le regioni. Ed è vergognoso difenderla affermando che «altrimenti la riforma sarebbe stata bloccata» dalle regioni che non intendevano perdere privilegi ereditati dalla storia.

Questa riforma peggiora l'ordinamento della Repubblica anche su questioni di minore impatto politico, ma di grande rilevanza sociale. Perché sono state cancellate le Province, mentre sono rimaste in vita le Città metropolitane? Questa decisione aumenterà le distanze «istituzionali» tra l'Italia dei borghi e delle «cento città», e l'Italia delle metropoli; concentra il potere amministrativo e indebolisce il valore delle autonomie locali, che sono un pilastro del pensiero cattolico democratico. 

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