Ius soli, una legge doverosa

Analisi - è il riconoscimento di un diritto che riguarda 800mila ragazzi immigrati nati in Italia, la riforma in Senato tra emendamenti e veti incrociati 

Parole chiave: ius soli (5), legge (39), Italia (221), immigrati (10), riforma (44)
Ius soli, una legge doverosa

Prima di tutto occorre sgombrare il campo da tutto ciò che non c’entra. Che è la gran parte delle cose che sentiamo dire in questi giorni dagli esponenti di diverse forze politiche e dalla stampa quando parlano della legge in discussione sullo Ius soli, o per essere più precisi sulla riforma della norma sulla cittadinanza.

Quindi. L’immigrazione non c’entra. Gli italiani poveri trascurati rispetto agli stranieri nemmeno. Non c’entrano i rifugiati, e neppure i cosiddetti clandestini. Non c’è di mezzo nemmeno una qualche largizione economica di cui il nostro Paese dovrebbe farsi carico. Tutto questo non ha nulla a che vedere col tema in discussione al Senato (ma discussione, con quello che abbiamo visto nei giorni scorsi, è un termine improprio).

La riforma della legge sulla cittadinanza (lo «Ius soli temperato» come viene definita) riguarda esclusivamente il riconoscimento di un diritto e riguarda esclusivamente i figli di immigrati, nati e/o cresciuti nel nostro Paese ma che, dopo molti anni di vita, studi, amicizie, cultura, aria italiana sono ancora – e solo nel passaporto – cinesi, congolesi, filippini, iracheni, senegalesi, marocchini, ucraini.

Eppure, in questi giorni, se ne sono sentite (e viste, nella indecorosa prima seduta del Senato del 15 giugno) di cotte e di crude. Abbiamo visto i cartelli esibiti in Parlamento dalla Lega con scritto «Stop invasione» e «Noi siamo italiani». Abbiamo sentito Beppe Grillo bollare la riforma come «pastrocchio invotabile», Matteo Salvini parlare di «cittadinanze facili», il ministro Alfano suggerire che forse è meglio rinviare tutto all’autunno perché durante la stagione degli sbarchi non è il momento giusto. Davvero, di tutto e di più. Fino alla boutade di Di Maio che vuole «portare lo Ius soli in sede europea» o a quella di Calderoli (lo stesso che ha presentato 48 mila emendamenti per paralizzare i lavori del Senato) che ha evocato – udite, udite – rischi di terrorismo.

Che c’entra tutto questo con l’oggetto della questione? Che c’entra con gli 800 mila ragazzi e giovani che sono cresciuti accanto ai nostri figli, parlano italiano (e dialetto) come noi, tifano Juve, tifano Inter e amano la pizza? Quale invasione? Quali sbarchi? Quale pastrocchio? Quale terrorismo? E quale sede europea (dalla quale peraltro i 5 Stelle vorrebbero uscire)? È il solito polverone mediatico, il rilancio parossistico di fake news che rende tutto indistinto, confuso, dove il merito della questione non conta più, non si sa più nemmeno di che cosa si sta discutendo.

Il punto, invece, è molto chiaro e molto semplice: la legge in discussione (neanche tanto coraggiosa) cerca finalmente di sanare una ferita, che stiamo perpetrando da anni nei confronti di quegli 800 mila giovani ‘italiani ma stranieri’.

Non si tratta nemmeno del modello americano (dove basta nascere in territorio statunitense per averne la cittadinanza). È un cosiddetto «Ius soli temperato»: vengono fissati alcuni criteri che consentono di diventare cittadini italiani, e non prevede alcun automatismo generalizzato. La proposta di legge (che, ricordiamolo, è già stata approvata alla Camera nel 2015, quasi due anni fa) stabilisce che ottenga la cittadinanza chi è nato nel territorio italiano da genitori stranieri, dei quali almeno uno sia in possesso del diritto di soggiorno permanente (per gli immigrati comunitari) o del permesso per soggiorno di lungo periodo (nel caso di extracomunitari). Questo significa che si deve essere residenti in Italia da almeno cinque anni. Va considerato poi che i cittadini extracomunitari, per avere quel permesso di soggiorno di lunga durata devono avere anche un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e devono superare un test di conoscenza della lingua italiana. Tra l’altro, questo tipo di permesso di soggiorno non può essere ottenuto da stranieri considerati pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato (altro che rischi di terrorismo).

La seconda via per il riconoscimento della cittadinanza ai minori stranieri è quello dello Ius culturae, ossia un criterio che mette in primo piano il fattore formativo. Ne possono beneficiare i ragazzi stranieri nati in Italia o giunti nel nostro Paese entro i 12 anni: viene loro riconosciuta la cittadinanza qualora abbiano frequentato regolarmente un periodo formativo di almeno cinque anni nel territorio nazionale. Tale percorso di studi consiste in uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale d’istruzione oppure in corsi d’istruzione professionale triennali o quadriennali.

La terza modalità per ottenere la cittadinanza non introduce un diritto, ma rientra nella concessione, quella che viene comunemente chiamata «naturalizzazione» (viene concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del ministro dell’Interno) e va richiesta al prefetto o al consolato. Riguarda gli stranieri arrivati in Italia prima della maggiore età (in pratica fra i 12 e i 18 anni) e legalmente residenti da almeno sei anni. Anche in questo caso c’è la condizione di aver frequentato e concluso positivamente un ciclo scolastico.

Bene. Di questo si tratta. Esposti i punti qualificanti della norma in discussione, è ancora più evidente che l’invasione, i rischi di terrorismo e i ‘poveri italiani a cui non pensa nessuno’ non c’entrano nulla. È baruffa da pollaio. È puro tentativo di strumentalizzare anche questo ennesimo tema per mire elettoralistiche di bassissima lega. È macelleria politica.

Diciamolo. È davvero uno spettacolo miserevole, che allontana (sempre più) i cittadini dalla politica. La torta (dei votanti) si riduce, ma a chi cavalca in modo squallido le derive xenofobe e razziste non importa, perché spera (e forse riuscirà) a portarsene a casa una fettina un po’ più grande, di quella piccola torta. Oggi è la volta dello Ius soli, ieri quello delle accuse alle Ong che soccorrono i migranti. Polveroni che hanno la vita di una settimana. Poi toccherà a qualcos’altro. Polemiche, attacchi, risse parlamentari e mediatiche. E non una soluzione vera ai problemi. E non un solo progetto politico degno di questo nome.

È la politica del respiro corto e dello sguardo miope che, come non ha saputo prevedere e governare i flussi migratori, come non ha saputo evitare che il Mediterraneo diventasse un cimitero del mare, come non ha saputo evitare che l’Unione europea fosse messa sotto scacco dai Paesi che hanno alzato i muri e steso il filo spinato, così oggi cerca di impedire a quegli 800 mila italiani di essere italiani.

Forse è inesatto dire che non ha saputo, occorre dire che non ha voluto. Perché l’irregolarità, la clandestinità, la mancata integrazione degli stranieri è esattamente ciò che è necessario per poter gridare all’invasione, al ‘prima gli italiani’, ai rischi di terrorismo. Negare a quegli 800 mila ragazzi italiani di essere pienamente italiani significa non solo conculcare un diritto, ma anche costringerli alla precarietà, impedire che diano il loro pieno contributo al nostro Paese, farne dei cittadini di serie B.

Così come attaccare i soccorritori che salvano i migranti in mare significa spostare l’attenzione dai veri problemi, che stanno prima dei barconi che attraversano il Mediterraneo: stanno, da un lato, nelle condizioni di guerra, di povertà, di persecuzione che milioni di persone nel Sud del mondo continuano a subire (anche a causa dei Paesi ricchi); dall’altro, nello sfruttamento e nelle violenze perpetrate dai trafficanti di esseri umani nei confronti di chi intraprende il viaggio della speranza. A queste tragedie occorre rispondere per tentare di dare una soluzione efficace al complesso tema delle migrazioni.

Quindi, che sia lo Ius soli o le navi delle Ong il giochino è lo stesso. Ma è ormai piuttosto scoperto: c’è da sperare che gli italiani se ne accorgano quanto prima. Abbiamo bisogno di ben altro che di questa politica d’accatto. 

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