Fare comunità, una riflessione dopo il voto amministrativo

Come leggere l'elezione dei nuovi sindaci in Italia e in particolare la sorpresa di Torino, che chiude un'epoca e ne inaugura una nuova piena di incognite e speranze

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Fare comunità, una riflessione dopo il voto amministrativo

Il 19 giugno 2016 si è chiusa un’epoca nella storia di Torino e si è aperta una nuova fase. Chiara Appendino, giovane trentenne di famiglia borghese, laurea alla Bocconi, sposata e mamma di un bimba, entra con un consenso importante e per molti osservatori inatteso nella Sala Rossa di Palazzo Civico come primo cittadino dichiarando di essere «Il sindaco di tutti i torinesi». Piero Fassino, che ringraziamo per il lavoro e impegno per la città, è stato sconfitto in modo netto, superato di dieci punti percentuali dopo aver concluso con un considerevole vantaggio il primo turno del 5 giugno scorso.

Nel 2012 mons. Nosiglia parlava delle due città, divise e distanti. Si soffermava sulla crescente difficoltà di famiglie, giovani, anziani, malati e persone sole. Non era solo una constatazione della realtà ma una presa in carico. Per questo l’Arcivescovo e la Chiesa torinese al suo fianco hanno promosso «l’Agorà del Sociale», un luogo di analisi e di proposte concrete, per capire, nel pieno della più grande crisi economica del Dopoguerra, come affrontare una realtà difficile attraverso un patto tra istituzioni e cittadini, corpi sociali intermedi, famiglie, e singole persone. Ora come allora è necessario lavorare uniti per affrontare, insieme, il dramma della perdita del lavoro, le difficoltà dei giovani ad entrare nel mondo produttivo, il disagio di chi è malato e vive condizioni di solitudine. Per questo il progressivo e drammatico aumento delle fasce di povertà, vecchie e nuove, è solo il dato statistico di un disagio più profondo.

Dal 2013 Papa Francesco ammonisce il mondo sulla tragica deriva di una comunità internazionale basata su una economia in cui l’uomo non è fondamento ma lo scarto, la violenza, la guerra e il disprezzo della vita dominano, spesso, incontrastati. L’invito ad uscire per la comunità cristiana e vivere, non parlare, con le persone nelle periferie, da Bergoglio conosciute nella loro drammatica espressione dei «barrios» di Buenos Aires, ha assunto un profilo oltre la dinamica evangelica e profetica dell’amore per i fratelli.

Forse anche per questo, una narrazione politica, troppo tecnica e a volte strumentale ad interessi di parte, è lontana anni luce dai bisogni primari del popolo anche a Torino si è conclusa e dovrà cambiare. Il quadro generale resta confuso e frastagliato e la progressiva erosione della partecipazione civica preoccupa. Per questo, come chiede nella sua lettera alla città «Mio fratello abita qui. Con la famiglia, i giovani i poveri», mons. Nosiglia auspica nel rispetto dei ruoli, governo e opposizione, che dopo il voto, si ritorni ad un confronto per costruire, senza reticente e indulgenze, ma sul merito delle questioni. Servirà costruire una comunità nella quale la fraternità non sia un semplice desiderio: ma un atteggiamento che chiede a chi ha di più di condividere con coloro che sono più in difficoltà.

Anche perché il popolo, e la nostra voce, e noi con esso cercheremo, come sempre, di farcene interpreti, cercando di non rimanere solo in superficie rispetto alla complessità del reale. Coloro che hanno votato per un cambiamento da oggi hanno bisogno di risposte non di polemiche e una atmosfera di resa dei conti. Bisogna fare sistema non sostituire sistemi, rafforzare reti, imprimere una azione volta alla condivisione, promuovere inclusione sociale, accorciare la distanza tra centro e periferie, ridurre le disuguaglianze, permettere un sistema nel quale l’emancipazione sociale coinvolga tutti e non solo alcuni.

A Torino si è chiuso un ciclo ultraventennale che sarebbe davvero ingeneroso, come taluni hanno espresso in questi giorni post-elettorali, archiviare frettolosamente dimenticando ciò che Torino è stata negli anni Settanta-Ottanta e come si presenta oggi, nonostante le tante difficoltà e omissioni. Dal lontano 1993 ad oggi la città è cambiata in profondità, e il lavoro delle Giunte Castellani, Chiamparino e Fassino, non può essere cancellato, in una furia iconoclasta tipica di un tempo che non ha memoria e vive di solo presente.

Torino si è trasformata non solo nella sua struttura urbana ma anche in quella politica, conservando e aumentando, in molti casi, il suo «dna» sociale in cui la dimensione di sostegno, aiuto, condivisione, in una parola la solidarietà, non è stato e non è racconto sociologico, ma vita. Silenziosa e operante la città buona, fuori da salotti e lustrini, ha proseguito il suo mandato con coerenza ma forse si è sentita stanca e abbandonata, afona rispetto ad un classe dirigente, molto impegnata a costruire una pagina nuova nella secolare esperienza subalpina ma incapace di intercettare tutte le istanze, di volti e storie di sofferenza non solo economica, in un orizzonte più vasto. E’ stato un turno elettorale che ha evidenziato molteplici e complessi aspetti di una mutazione sociale e politica davvero profonda in atto nel nostro Paese e nelle nostre comunità.

E lo è oggi soprattutto nell’unico partito, quello democratico, erede della tradizione dei partiti di massa del Novecento, perno fondamentale dell’attuale sistema politico nazionale di oggi e del futuro. Se però solo il 50% dei cittadini si reca alle urne per eleggere i rappresentanti della comunità di vicinato (Comune e Circoscrizioni) è evidente che non è possibile parlare di una disaffezione fisiologica ma di un malessere profondo, che mina alla radice il concetto stesso di partecipazione democratica. Il Movimento Cinque Stelle, ha saputo intercettare un voto espresso da cittadini alla ricerca di risposte in una adesione non più ideologica e di appartenenza a partiti e movimenti post novecenteschi. Sfaldandosi la sinistra radicale e sparendo, non l’elettorato ma la rappresentanza dei partiti di Centrodestra nel contesto italiano e in quello torinese, la contesa è dunque rimasta tra Pd e M5S.

Un movimento quello fondato da Beppe Grillo, magmatico e in evoluzione continua che ha recuperato una fetta importante di un elettorato insoddisfatto e stremato dalle narrazioni degli ultimi 20 anni. Siamo passati da una Italia politica bipolare a tripolare, siamo prossimi ad un Referendum costituzionale, pieno di incognite in un quadro politico che avrebbe bisogno di una omogeneità e legittimazioni reciproche.

Resta un sogno la presenza di schieramenti politici coesi e ricchi di idee in cui gli elettorati moderati e riformisti possano scegliere, confrontandoli, programmi e visioni differenti realizzando finalmente una realtà democratica matura e moderna. E’ questo il compito decisivo della classe dirigente nazionale e locale che si affaccia alla guida amministrativa e politica, cui non basta l’immagine ma serve la sostanza del pensiero e del progetto. A tutto ciò va aggiunto un sano e fondamentale equilibrio, il rigore e l’etica della politica come servizio al bene comune, uniti ad una idea di sviluppo diverso dal passato ma necessario. Tutto questo non è compito di pochi, ma responsabilità di tutti. Come scriveva Aldo Moro, uno di quei maestri che ci mancano come l’aria in alta quota: «si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con le sue difficoltà».

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