Elezioni amministrative, una sfida per il Governo e la crisi dei partiti
Una tornata elettorale che sembra essere molto distante dai pensieri degli italiani chiamati alle urne
Le imminenti elezioni amministrative del 31 maggio sono molto importanti. Si voterà in 7 regioni (Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia) e in ben 1.062 comuni (tra i quali i capoluoghi Venezia, Salerno, Arezzo, Matera, Agrigento, Chieti, Rovigo, Mantova, Nuoro, Enna). Quasi 23 milioni di cittadini, metà della popolazione elettorale. Perciò non si può pensare che si tratti di un evento locale. Sono elezioni amministrative importanti, anche sul piano politico nazionale, per molti motivi, oltre al principale fatto democratico che i cittadini amministrati sono chiamati a giudicare, dopo un ciclo ordinario senza traumi da dimissioni forzate, la qualità dell’operato ordinario dei propri amministratori.
In sintesi. Per il Pd, dopo l’imprevisto exploit delle scorse elezioni europee: se e quanto consenso avrà sottratto il logorio del governo in prima persona? Poi è in discussione la stessa leadership del segretario/premier: la sua narrazione costante di una promessa in atto di cambiare il Paese (adesso! La svolta!) di pari passo con le forzate riforme, incidono e come sul voto?
Bisognerà anche vedere se le spaccature all’interno della destra (caso Puglia e Veneto), così come quelle della sinistra (Liguria), con un effettivo potere di ricatto delle minoranze fuoriuscite producono la sconfitta della coalizione.
Serviranno, inoltre, a capire fino a che punto i cosiddetti candidati “impresentabili” (macchiati, cioè, da un curriculum non proprio virtuoso) sono capaci di riscuotere successo e consensi, o se l’elettorato, disilluso da mirabolanti promesse e clientele che si fanno concorrenza nello stesso campo, vorrà votare in modo diverso. Infine, fissando il livello di astensionismo, che nei precedenti appuntamenti elettorali ha raggiunto cifre preoccupanti, indicheranno il grado di consenso che ancora riscuote la democrazia. Penso siano parole scriteriate quelle di chi dice che in fondo il voto è un diritto e chi si astiene ha sempre torto, peggio per lui. Per chi la pensa così non cambiano i connotati del sistema, si guardi a paesi con percentuali di partecipanti al voto sempre poco al di sopra della metà dagli aventi diritto.
C’è una differenza, però: il nostro Paese ha raggiunto un livello di sfiducia verso le istituzioni (per corruzione, inefficienza, iperburocrazia, esclusione sociale delle fasce più deboli) che i partiti, ossia i soggetti che dovrebbero “riabilitare” voto e partecipazione, non solo non sono in grado di riassorbire e riconvertire in processi partecipativi, ma sono anzi i principali “carnefici” di istituzioni agonizzanti di fronte ad un’opinione pubblica esausta e ipercritica. Allora come si fa a sostenere che se votano (poniamo) il 50% degli elettori e le decisioni vengono prese dalla metà degli eletti, il sistema funzioni al meglio comunque? Quando la decisione è così separata dalla deliberazione (si veda il puntuale articolo di Nadia Urbinati su la Repubblica del 22 maggio) le colonne si sgretolano in maniera irreversibile. Il moltiplicarsi di liste e candidati; l’imponente presenza mediatica (spesso di dubbio gusto…); efficienza e trasparenza nei conti brandite come solo antidoto all’antipolitica, tecniche di voto, di per sé non bastano a recuperare il terreno perduto.
Anzi. Mai come ora occorre un progetto di lungo respiro e in cui credere veramente. Fatto di pratica democratica condivisa (diffusione dell’art. 118 della Costituzione; applicazione art 49 sui partiti; regolamentazione delle primarie, ad esempio …) non postulati ideologici e astratti. Ha scritto D’Alimonte sul Sole24ore del 17 maggio che “L’esito delle elezioni potrebbe aggravare la sindrome o creare le condizioni per una graduale uscita dalla crisi”. Lui, scettico, teme per la prima. Chi fa politica, a ogni livello, dovrebbe puntare alla seconda. Il tempo a disposizione si riduce sempre di più.
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