Fare cultura, come nacque il «sistema Torino»

Scrive Ugo Perone -  La crisi industriale degli Anni Novanta spinse la politica, Giunta Castellani, ad una vasta riflessione sull’identità del capoluogo, sul bisogno di pensiero, sul rilancio possibile. Oggi prevale la critica dei «salotti» che assunsero la guida della città. Ma sta rallentando anche la capacità di progetto 

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Fare cultura, come nacque il «sistema Torino»
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Quando la Giunta Castellani nel 1993 venne inaspettatamente eletta e assunsi il ruolo di assessore alla Cultura, Torino usciva da un travaglio che ne aveva intaccato la stessa identità. Vissuta negli ultimi decenni nella plumbea ma rassicurante cornice di città monoindustriale (i più vecchi ricorderanno il deserto estivo di quando Fiat chiudeva), si ritrovava ora, per la crisi, priva non solo di importantissime risorse economiche, ma orfana della stessa identità che si era costruita. Città industrialmente decisiva era però, nel panorama nazionale, marginale. Se n’era fatta una ragione, impersonando l’orgoglio un po’ altezzoso degli emarginati e coltivando uno stile di vita sobrio, ordinato, serio.

Tutto questo però minacciava di cadere e la marginalità si rivelava così debolezza. Occorreva porvi rimedio. Occorreva un progetto che, ricollegandosi a una tradizione ben altrimenti ricca, facesse intravedere un futuro. E la cultura, in un’operazione politica di questo genere, svolge un ruolo determinante. Essa infatti offre ai cittadini uno specchio in cui guardarsi e riconoscersi. Non bastano servizi scolastici e sociali efficienti (lo erano già, per antica consuetudine), non basta un apparato amministrativo corretto, ma anche un po’ miope (sabaudo, nel senso duplice, positivo e negativo, del termine) e neppure un bilancio sotto controllo. Non basta insomma l’amministrazione, occorre la politica, ossia un’idea di città e un piano per realizzarla. È nato così il sistema Torino, ossia un insieme coordinato di iniziative: dal piano regolatore alla cura per il tessuto urbano, dalla rimotivazione della macchina amministrativa alle istituzioni e agli eventi culturali considerati come un insieme organico. A me, filosofo di mestiere, la filosofia non ha suggerito nessuna specifica scelta, ma l’abitudine a considerare in politica ogni questione dal punto di vista dell’insieme.

Molti anni più tardi si è voluto fare del sistema l’emblema di un circolo chiuso di attori sociali, sordo a istanze di strati più vasti della città. Ma questa è una caricatura o, se si vuole, la perversione di un metodo che come tale mantiene tutta la propria validità. Senza sistema, nessun progetto capace di successo; anche se, senza progetto, nessuna necessità di sistema.

Ma verso quale direzione progettare una politica della cultura? Tre aspetti mi sembrano rilevanti. Favorire la riappropriazione del territorio e della sua storia, promuovendo così un processo di riconoscimento (in questa direzione andarono iniziative come l’abbonamento ai musei, che veleggia oggi intorto ai 100 mila fruitori; pass 15, un invito per i giovani 15enni alla fruizione gratuita della cultura; Torino non a caso, un progetto di volontari per scoprire angoli sconosciuti della città). In secondo luogo, offrire contenuti intorno ai quali ritrovarsi e discutere. La cultura è infatti il luogo in cui le differenze possono entrare produttivamente in dialogo. A ciò sono istituzionalmente delegati musei (possibilmente ben radicati nella storia della città, Museo del cinema o dell’auto tra i più recenti), teatri, festival (come tra gli altri «Identità e differenza», che mise in scena nel centro della città la cultura di comunità immigrate). E, infine, ospitare eventi di qualità in grado di rappresentare la città a livello nazionale e internazionale (come Settembre musica, purtroppo oggi indebolita dalla condivisione con Milano, o il minacciato Salone del libro).

Lo specchio della cultura è però una superficie delicata: può appannarsi, può facilmente spezzarsi, può con il tempo perdere in brillantezza, può addirittura deformare. Va dunque trattato con cura. Occorre che metta a fuoco qualcosa che c’è, non che produca una semplice illusione. Pur comprendendo chi evidenzia l’importanza turistica della qualità culturale di una città, sono stato e sono contrario a quanti pensano alla cultura come funzionale al turismo. Una città deve riconoscersi nella cultura che produce (e non solo importa), esserne orgogliosa e partecipe. Solo così potrà anche davvero efficacemente offrirla ai turisti non come una vetrina effimera. Il fine deve restare la cultura, e il turismo, sostenuto da una pratica efficiente dell’accoglienza, sarà uno dei frutti che se ne possono derivare.

Questa confusione tra causa ed effetto è frequente. Si commette sovente l’errore di indicare le Olimpiadi invernali del 2006 come il fattore decisivo della trasformazione di Torino da città dell’auto in città della cultura. È vero invece che furono effetto di una trasformazione già in atto. Senza quella, senza il modello di un’Olimpiade in una riconosciuta città della cultura, non ne avremmo mai ottenuto l’assegnazione. Naturalmente quell’avvenimento fu un acceleratore formidabile e divenne esso stesso un fattore di trasformazione, ma ciò avvenne perché i cittadini accolsero le Olimpiadi con un entusiasmo (ricordo, il primo giorno, i volti sorridenti e gli applausi ai bus degli invitati) che significava: questo è un evento che abbiamo voluto noi (qualcosa di simile si è ripetuto con le reazioni al minacciato Salone del libro).

Quando accadono fenomeni di questo genere vuol dire che una politica ha operato bene, è stata capace di far condividere un progetto. Oggi però si dice che il racconto di questo disegno ha saputo essere efficace solo per una parte della città (il sistema avrebbe assunto la forma di un sistema dell’esclusione). Vivendo ormai per lo più altrove, non so interamente valutare questa sensazione. Mi sembra però che si tratti della conseguenza, non del tutto sorprendente, di un progetto che ha esitato di fronte a nuovi obiettivi. Si dice oggi che a Torino sono le periferie a soffrire (anche se studi comparativi paiono contrastare questa tesi). A me pare si possa dire che il rinnovamento della città, della sua immagine e identità, ha smesso di espandersi. Molti (anche dalle periferie e da fuori Torino) attingono alla città, la usano, ma non la sentono propria e perciò mancano dell’orgoglio per ciò di cui pure si avvalgono. È stato un errore non voler proporre Torino come Città europea della cultura secondo un progetto estensivo che poteva coinvolgere non solo le periferie ma l’intero hinterland sul modello della Ruhr (progetto utile, anche senza l’assegnazione del titolo). Una città della cultura non è un centro raffinato ed elitario, ma una capitale che irradia un intero territorio. Torino soffre di un hinterland troppo piccolo e poco collegato. La misura di città di cui v’è oggi bisogno non è quella della megalopoli, ma di una media città con ampi collegamenti; una rete di relazioni, un habitat che ciascuno, in qualunque luoghi abiti, sente come proprio.

La cultura non si fa solo con i soldi (che sono utili) e neanche con gli sponsor (che restano benvenuti), ma avendo delle idee e mettendo in atto pratiche sistematiche di sostegno a chi le ha. Una politica non può creare poeti, attori, musicisti, ma solo inscrivere in un orizzonte di sistema (ahimé, ancora una volta) chi ha queste qualità e aiutare a far partecipi di quel racconto quanti di queste qualità gioiscono, pur senza essere in grado di produrle. La politica culturale una cosa può senz’ombra di dubbio: spegnere queste energie. Ma sarebbe la prima a pagarne le conseguenze.

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