Assistenza, non vendere l’eredità dei torinesi

Fragili finanze a palazzo civico – per quadrare i conti torna ogni anno l’idea di cedere pezzi di città

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Assistenza, non vendere l’eredità dei torinesi

Quale futuro possiamo sperare di garantire all’Assistenza pubblica in una città come Torino? Il Bilancio comunale 2017 – sul quale la Sala Rossa vota in questi giorni, fra polemiche roventi – sta cercando di preservare i servizi essenziali, ma la conservazione del budget non può essere l’unico obiettivo da raggiungere, ce n’è un secondo altrettanto importante per il futuro: difendere (e non invece dissipare, come da alcune parti si sarebbe tentati) il patrimonio di beni e immobili donati dai torinesi al Comune nel corso dei secoli per garantire l’esistenza stessa dell’Assistenza, per sostenere le opere di pubblica carità, per erogare i servizi.  La questione è venuta al pettine lo scorso mese di aprile quando, discutendo sulla cessione in gestione dell’Istituto di vecchiaia Carlo Alberto, l’Amministrazione Appendino ha proposto di sfruttare gli introiti per ripianare debiti del Comune in tutt’altri settori della macchina municipale. Ecco, è precisamente quello che non si deve fare (e per ora non si farà, una mozione di Elide Tisi ha posto il veto): il patrimonio dell’Assistenza municipale deve restare all’Assistenza.

L’eredità del passato. È più che naturale, discutendo del Bilancio preventivo, che l’attenzione venga attratta dalle voci e dagli stanziamenti che riguardano l’Assistenza. A partire dagli anni Novanta del Novecento il Parlamento italiano ha licenziato molti provvedimenti di riforma del funzionamento degli enti locali, ma il nocciolo centrale dei compiti di un Comune come Torino continua a ruotare intorno ai servizi per le persone, in particolare a quelli del settore socio assistenziali. Che la competenza sia tipicamente comunale è ben espresso dal cosiddetto «domicilio di soccorso: richiede la residenza in un Comune per due anni prima di poter accedere a pieno titolo ai servizi assistenziali; i cittadini di altri Comuni, che si trovano in difficoltà fuori sede, possono certo essere assistiti ma la prassi poi prevede che il Comune erogatore possa chiedere il rimborso delle spese al Comune originario.

La storica tradizione di Torino nell’assistenza è documentata in una lunga serie di deliberazioni comunali del secondo millennio dell’era volgare. Una parte importante del Bilancio comunale era sempre destinata ai compiti socio assistenziali e i cittadini torinesi nel tempo si tramandarono una profonda sensibilità per questa dimensione della vita collettiva: spesso destinarono al Comune parte del loro patrimonio e del loro reddito con il vincolo, appunto, della destinazione all’Assistenza. Passeggiando per la città, basta che ci guardiamo attorno per misurare il fenomeno: notiamo molti segni di questa vocazione torinese, per esempio il Palazzo degli Stemmi (così chiamato per la presenza degli stemmi delle famiglie che effettuavano donazioni) o il grande palazzo detto «dei poveri vecchi».

L’Ottocento vide la nascita di molte istituzioni assistenziali, col tempo variamente denominate: da semplici enti assistenziali a Enti morali, a Ipab. Ciascuna si reggeva sulle risorse portate da soci privati. Nel corso del tempo, soprattutto nell’ultimo quarto del secolo scorso, molte di queste istituzioni si sciolsero e trasferirono il loro patrimonio al Comune, ma conservarono, anche per legge espressa, il vincolo di destinazione dei propri beni e redditi. Il tutto sempre con lo scopo dichiarato di aumentare le risorse a disposizione dei servizi socio assistenziali.

Memoria corta. Da un paio di decenni la memoria dei vincoli originari con cui beni e redditi giunsero al Comune di Torino sta gravemente appannandosi. Abbiamo recentemente sentito sostenere che il budget destinato dal Bilancio comunale all’Assistenza sia superiore alla ricchezza derivante dalle donazioni, dai lasciti, dallo scioglimento delle Ipab. L’abbiamo sentito sostenere nelle scorse settimane anche rispetto alla vicenda dell’Istituto Carlo Alberto, una Ipab sorta nella prima metà dell’Ottocento per ospitare anziani bisognosi di assistenza: si chiedeva di mantenere nell’alveo dell’Assistenza i profitti attesi dalla cessione della gestione del Carlo Alberto (oltre 10 milioni di euro), ma la bozza di Bilancio intendeva destinarli a tutt’altro, appunto sostenendo che le spese coperte dal Bilancio ordinario sono maggiori dei redditi derivanti dal Carlo Alberto.

La cosa può essere vera in termini contabili, ma certo non risponde alla volontà di coloro che fecero lasciti e donazioni per il Carlo Alberto. Costoro non puntavano ad annullare le spese a carico del Comune sul Bilancio ordinario, ma ad aumentare le risorse per migliorare i servizi. Se oggi si smantellasse e si trasferisse altrove questa ricchezza sarebbe in corso un taglio dei servizi di Assistenza. Niente di diverso, bisogna chiamare le cose con il loro nome.

Vendere gli immobili? In modo apparentemente distinto dalla questione del Carlo Alberto, gli addetti ai lavori, amministratori e osservatori, stanno evidenziando la grande consistenza complessiva del patrimonio immobiliare del Comune di Torino, il quale potrebbe essere dismesso fornendo ulteriori risorse finanziarie. Si parla di migliaia di unità abitative. Ma di nuovo: nessuno sta ricordando il modo con cui l’enorme patrimonio immobiliare si è formato, nessuno sta evidenziando l’importanza di ragionare sulla destinazione che il denaro ricavato dalle vendite potrebbe prendere.

Buone rendite? Poche tasse. Il Comune di Torino cominciò ad avere una propria politica per il patrimonio edilizio a partire dal XVI secolo, quando la città assunse il ruolo di capitale del Ducato di Savoia. Già nel 1470, con la formula dell’affitto perenne ad una cifra costante, la Città di era assicurata la gestione dei mulini e dei macchinari che vi erano impiantati, usufruendo in pratica della esclusiva dello sfruttamento delle acque, principale forza motrice di quei tempi. Lo sviluppo della popolazione nella capitale aveva aumentato enormemente l’utilizzo degli impianti dei mulini, procurando buone entrate alle finanze della città. I poco più di cinque mila abitanti si moltiplicarono sino a raggiungere i cento mila del XVIII secolo: pagavano fior di fiorini per il solo diritto di moltura, di macinazione dei grani.

La Città adottò la sua politica di investimenti immobiliari, un’azione che nel 1658 la portò alla costruzione di un Palazzo di Città enorme per le sue necessità: erano sufficienti poche spazi sino al primo piano nobile, il resto era lasciato all’affitto, c’erano 39 botteghe del piano terreno. Il reddito della Città era garantito proprio dagli affitti degli immobili comunali: producevano  circa un terzo del valore complessivo; il cinquanta per cento era garantito dai mulini, il restante da poche altre imposizioni fiscali, tanto che a Torino, sino alla fine del Settecento i cittadini non pagavano alcuna imposta immobiliare.

I catasti di Torino si fermano al 1559 e non saranno ripresi che nel 1822. La gran parte del patrimonio è posteriore ed è giunto alla Città proprio dallo scioglimento e dall’incameramento dei patrimoni delle cosiddette Ipab. Quasi sterminato il patrimonio edilizio giunto dai cosiddetti «Poveri vecchi», ma importante anche quello degli altri enti soppressi.

Bisogna ricordare che anche per questi immobili vige il principio del vincolo di destinazione, in questo caso per servizi socio assistenziali. Alcuni di questi beni sono già stati alienati. Forse è giunto il tempo di una revisione del modo con cui sono pervenuti alla città tutti gli alloggi di cui si parla, perché dal ricavato potrebbe riprendere una nuova fase di investimenti nelle strutture assistenziali, di cui la città continua ad avere grande bisogno.

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