128 aree ex-industriali, cosa ne ha fatto Torino

Secondo il Rapporto Giorgio Rota 2016 la chiave per interpretare la lunghissima trasformazione post-industriali va cercata prima delle chiusure Fiat

Parole chiave: Rapporto Rota (1), Torino (730), industria (13), città (139)
128 aree ex-industriali, cosa ne ha fatto Torino

Partono da lontano le trasformazioni indagate dai ricercatori del Politecnico e del Centro Einaudi per arrivare a un «Ceck-up» di Torino come quello tracciato anche quest’anno dal Rapporto Giorgio Rota, giunto alla diciassettesima edizione e consultabile sul sito www.rapporto-rota.it. Il tema sottotraccia è quello della riconversione del tessuto industriale torinese decaduto e dei suoi luoghi: una storia, quella della crisi produttiva e della riconversione successiva, cha affonda le sue radici nella metà degli anni Settanta e che a Torino è stata molto diffusa, avendo coinvolto centinaia di insediamenti produttivi in molti quartieri.

Nella mappa pubblicata nel rapporto (che riproduciamo in questa pagina) vengono evidenziati i luoghi occupati da 128 fabbriche dismesse negli anni Ottanta e Novanta, di dimensioni grandi, medie e piccole. La tendenza declinante, con il fallimento e la chiusura delle industrie cittadine, era iniziata a fine anni Settanta, dopo la crisi petrolifera internazionale. Un processo che impoverì la città di risorse produttive e che diede anche forma alla narrazione della città monofabbrica, identificata esclusivamente con la Fiat, che ancora rimaneva. In quegli anni entrarono in crisi gli stabilimenti produttivi di Nebiolo, Venchi, Michelin, Westinghouse, Viberti, Teksid, Vitali, per citare alcuni dei più grandi.

Solo nel 10% dei casi le aree occupate dalle aziende che chiudevano hanno conservato comunque una vocazione industriale. «Nel 36% dei casi – si legge nel rapporto Rota – sono state trasformate in edifici per servizi e uffici, nel 26% in abitazioni, nel 12,5% in insediamenti commerciali. L’8,6% delle aree è stata trasformata in area verde, mentre il 9,4% di esse è ancora in stato di abbandono». «Le trasformazioni urbanistiche del Piano Regolatore del 1995 – spiega uno dei curatori del rapporto, il ricercatore Luca Davico – sono state attuate in larga parte per quanto riguarda l’area della Spina Centrale, mentre la trasformazione urbanistica prospettata dal piano di Gregotti e Cagnardi si è arrestata sia lungo l’asse di corso Marche, sia su quello del Po».

Oggi un dato comune agli osservatori intervistati per la redazione del rapporto è la mancanza di fiducia (con critiche anche mirate) nei confronti degli attuali piani strategici dell’area torinese. Spiega Davico: «Tre piani insistono oggi sulla città metropolitana: Torino metropoli 2025, Piano strategico metropolitano e Torino Smile. Nessuno mostra di avere credibilità sufficiente per imporsi come vero programma di sviluppo della città».

La mancanza di fiducia, secondo i curatori del rapporto, deve rappresentare un avviso per gli amministratori, così come hanno dimostrato di esserlo le valutazioni dei cittadini sulle trasformazioni urbanistiche: «Il dato sull’apprezzamento di questi interventi negli ultimi dieci anni – ha sottolineato la ricercatrice Silvia Crivello – nonostante sua complessivamente alto ricalca l’esito delle ultime elezioni amministrative: centro e collina, soddisfatti al cento per cento, hanno premiato Fassino alle urne; tutti gli altri quartieri hanno espresso la maggioranza dei consensi per Appendino e fanno registrare sulle trasformazioni urbane giudizi che degradano via via verso i pareri più negativi, espressi dagli abitanti di Falchera, Regio Parco e  Barriera di Milano».

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