Un Leone d'oro dalla parte dei più deboli

La vittoria di «The shape of water» di Guillermo Del Toro alla 74ª Mostra del cinema di Venezia: un omaggio affettuoso agli ultimi e agli esclusi

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Un Leone d'oro dalla parte dei più deboli

Alla riprova dei fatti, dal 30 agosto al 9 settembre l’edizione numero 74 della Mostra del cinema di Venezia ha espresso un livello qualitativo generale decisamente alto. Erano anni che il concorso, al Lido, non presentava film belli e importanti, sia sul piano delle suggestioni narrative che dei registri espressivi. Un amalgama riuscito, dunque, a cominciare dal Leone d’oro «The shape of water» di Guillermo Del Toro, collocato al tempo della ‘guerra fredda’, in un contesto storico dal quale emerge un sottotesto sociale e politico ben marcato. Intimo e spettacolare al tempo stesso, riedizione in chiave dark de «La bella e la bestia», «The shape of water» è un fantasy romantico che si propone al grande pubblico mantenendo però vivissima la cifra autoriale del regista messicano. Un film che, raccontando con piglio visionario l’insolita love story tra la muta donna delle pulizie di un laboratorio segreto di Baltimora, dove si svolgono esperimenti top secret, e il misterioso uomo-pesce che vi è recluso sotto copertura governativa, si dichiara apertamente dalla parte degli ultimi, degli esclusi, degli emarginati.

Anche il Gran premio della giuria attribuito a «Foxtrot» dell’israeliano Samuel Maoz riconosce il valore di un film ben delimitato nella sua cornice geografica e politica, il conflitto mediorientale, ma tutto giocato sul piano esistenziale, con una struttura narrativa affascinante, articolata in tre tempi, e una regia calibratissima. Persin troppo generoso, forse, il Leone d’argento per la miglior regia a «Jusqu’à la garde» del francese Xavier Legrand (a cui è andato anche il Leone del futuro per la migliore opera prima), ineccepibile, invece, il premio per la miglior sceneggiatura a «Three Billboards outside Ebbing, Missouri» di Martin McDonagh, il lungometraggio più applaudito di Venezia 2017.

Alla giuria presieduta da Annette Bening va riconosciuto anche il merito di aver assegnato un Premio speciale a «Sweet country» dell’australiano Warwick Thornton (parabola morale che rivendica parità di trattamento tra i padroni bianchi e i servi di colore nell’Australia degli aborigeni) e di aver consegnato le Coppe Volpi per i migliori attori a Kamel El Basha, interprete di«The Insult» (la seconda pellicola in gara incentrata sulle tensioni in Medio Oriente), e soprattutto a Charlotte Rampling, protagonista assoluta di «Hannah» di Andrea Pallaoro, film delicato e profondo sullo spaesamento esistenziale all’interno di una coppia di anziani. Il cinema italiano porta a casa anche la vittoria di Susanna Nicchiarelli con «Nico, 1988» nella sezione Orizzonti e gli applausi, in concorso, a «The Leisure Seeker» di Paolo Virzì e ad «Ammore e malavita» dei Manetti Bros.

Unica perplessità, in una Mostra più che soddisfacente, la trentina di premi assegnati complessivamente nelle varie sezioni del festival. Troppi. Avere il coraggio di ridurre i riconoscimenti significherebbe rimarcare ulteriormente il peso delle proprie, convincenti scelte.

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