Susanne Raweh storia di una ebrea sopravvissuta ai lager nazisti dell’Ucraina

 «Sono stata psicoterapeuta dei sopravvissuti per 11 anni. Ho sentito tante storie. Ora non voglio più vedere film o leggere libri sull’olocausto. Sono satura».

Parole chiave: sopravvissuti (1), shoa (2), nazismo (4), olocausto (8)
Susanne Raweh storia di una ebrea sopravvissuta ai lager nazisti dell’Ucraina

 

 

Susanne, ebrea, classe1938. Professione psicoterapeuta. È nata a Bucarest in Romania da una coppia “europea”: padre medico, originario dell’attuale Moldavia e madre di origine polacca,ma di adozione viennese. L’abbiamo incontrata nella sua abitazione di Torino. Di lei colpiscono l’allegria e la schiettezza.

Susanne, lei  è stata rinchiusa in diversi di campi di prigionia ucraini

Sì. Con mio padre e mia madre. Ero rimasta l’unica bambina nella mia baracca. Ogni settimana arrivavano i nazisti a prendere i malati e i bambini. Prima che arrivassero mi nascondevano in modo che non mi portassero via. Ricordo che una volta sono giunti all’improvviso e io mi sono nascosta da sola sotto il letto ma mi hanno trovata e preso. Mi stavano caricando sul camion per portarmi via in quel luogo “da dove nessuno era mai tornato” ma qualcuno ha avvertito mia madre che subito mi ha raggiunto. Anche mio padre era con noi. Stavamo per essere caricati ma il capo-baracca ha dato l’ordine di lasciarci stare. Forse perché mio padre era medico e poteva essere utile. Questo episodio l’ho ritrovato su dei fogli che mia madre aveva appuntato. Fogli scoperti in un libro dopo la sua morte e che subito non ho voluto leggere. È stato molto importante per me, perché avevo paura che i miei ricordi fossero sfalsati: ero una bambina di soli 4 anni!

Come poteva vivere una bambina nel lager?

Già da piccola ero un po’ “istrione” e facevo degli spettacoli cantando e ballando. Le persone che erano con me mi buttavano dei nastrini (ne ricordo uno verde mela) o dei bottoni. Io mi divertivo e sicuramente alleviavo anche i miei spettatori dalle loro giornate faticose. Ma ricordo anche la fame, la sete, i pidocchi e il freddo. Per me, che non conoscevo la vita “normale”, era quella la vita normale. Per i miei genitori no.  Sapevano cosa rischiavamo, sapevano cosa stesse succedendo a livello europeo. Ma che cosa potevano fare i genitori quando i figli chiedevano loro da mangiare e da bere e loro non ne avevano?

Come trascorrevano le giornate gli adulti?

Le persone del mio campo dovevano costruire strade sotto la sorveglianza dei tedeschi. Il capo del campo, quello che ha impedito che io e i miei genitori partissimo, era un ingegnere molto corretto. Lui non era nazista ma era un militare del reich e doveva ubbidire agli ordini superiori.

Dov’era il resto della sua famiglia?

I miei parenti paterni non hanno vissuto in lager e sono rimasti in vita, quelli da parte di mia madre sono stati uccisi.

Ha superato il dolore dei tuoi ricordi?

Adesso sì, sono stata per parecchi anni in terapia. Penso di aver anche divertito, a volte, la mia psicoterapeuta. Ma non voglio più vedere film sulla shoah o leggere libri. Sono satura.

Con i suoi genitori parlava del periodo trascorso nei lager?

Assolutamente no. Nessuno ne parlava.Nessun sopravvissuto, neanche quelli di seconda generazione, che sono i figli dei sopravvissuti. Mia madre, in tarda età, voleva raccontare a mio fratello, nato dopo la shoah quello che era successo ma lui non ha voluto. A me diceva: sai già tutto, non devo dirti nulla.

Sappiamo che si è  impegnata a favore dei sopravvissuti.

Sono stata psicoterapeuta dei sopravvissuti di prima e seconda generazione per 11 anni, poi basta. Ho sentito tante storie. È per questo motivo che sono satura. Facevo parte dell’associazione Amcha, centro per il supporto psico-sociale dei superstiti della shoah e delle solo famiglie. Solo dal 1988 lo Stato di Israele ha iniziato ad occuparsi di coloro che erano tornati dai lager.

Perché solo dal 1988?

I motivi sono tanti. Si provava vergogna verso i 600mila sopravvissuti e paura di essere accusati di non aver fatto niente. La cosiddetta “invidia del sofferente”. Inoltre nessuno parlava.  L’associazione si è accorta che troppa gente aveva dei problemi anche fisici inspiegabili: non dormiva di notte, non digeriva, soffriva di incontinenza. Così alcuni hanno iniziato la psicoterapia. Era difficile per i terapeuti capirli e farsi capire, trovare un punto di comunicazione. Non riuscivano a raccontare, tergiversavano sui sintomi. Ma l’associazione non si è scoraggiata. Molti hanno lavorato per tanti anni seguendo il percorso di accettazione. Sì, bisognava conviverci per sopravvivere, perché l’olocausto non può essere spiegato.

Alcuni terapeuti hanno anche seguito un gruppo di figli di nazisti e un gruppo di figli di sopravvissuti: paradossalmente le patologie fisiche e psichiche erano molto simili.

E’ ancora impegnata sul fronte della memoria?

Spesso vengo chiamata come testimone della shoah, in tv o nelle scuole.

Mia figlia mi ha chiesto di scrivere qualcosa, non per lei e suo fratello a cui non ho mai raccontato niente, ma per i nipoti prima che la memoria svanisca. Così ho iniziato a scrivere, ma come ero capace io, in versi ebraici. Mia figlia, appena lo ha letto, ha iniziato ad illustrarla, anche se lei non aveva mai disegnato. Per farla breve, alla fine ne è uscito un libro per bambini.

Secondo lei è opportuno parlare ai bambini della shoah?

Certo. I bambini devono sapere. Occorre spiegarla loro in modo adeguato ma senza nascondere nulla. Sono stata invitata a portare il mio libro al Museo della Resistenza a Torino proprio mentre stavano discutendo su quale fosse l’età giusta per raccontare la shoah ai bambini. Nelle scuole mi è capitato di incontrare un insegnante che mi ha chiesto di fare delle lezioni anche ai docenti perché loro stessi non ne sanno molto. Adesso nelle classi trovo bambini di molti paesi che sono arrivati in Italia e loro di sicuro non sanno niente. Ho anche scritto un libro a quattro mani, con un’amica cattolica, sulle feste comandate ebraiche e quelle cattoliche per far conoscere la cultura del mio popolo.

Oggi la parola d’ordine sembra essere “tolleranza”.

Io non sono tollerante, perché tutti abbiamo i nostri pregiudizi. L’importante è convivere non tollerarsi. Una volta sono stata invitata ad una cena di Natale. Un commensale, un po’ altezzoso mi ha chiesto perché una donna ebrea stesse festeggiando il Natale. E io gli ho risposto: «Sono sempre felice quando nasce un bambino ebreo!»

Le pongono domande i bambini?

Sì, moltissime e curiose. Qualcuno mi ha anche chiesto se avessi visto Hitler.

 

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