Parole in libertà, quelli che dicono "sindaca"

Sull'ultimo numero de La Voce e il Tempo, in edicola dal 6 ottobre, Marco Bonatti riflette sul linguaggio self service, un vecchio modo di fare politica 

Parole chiave: sindaca (14), linguaggio (3), comunicazione (28), parole (7), sindaco (16), libertà (20)
Parole in libertà, quelli che dicono "sindaca"

Nel 2004 l’allora Telecom Italia lanciò una campagna di spot televisivi per sostenere l’immagine di una comunicazione «globale» grazie alla potenza delle nuove tecnologie. In uno degli spot (lunghissimo: 50 secondi) immagini originali del Mahatma Gandhi venivano proiettate in tutto il mondo: lo vedevano le contadine sovietiche sulla Piazza Rossa; i turisti davanti al Colosseo; i pellerossa sullo schermo del loro computer e i newyorkesi a naso in su a Times Square; e anche sul piccolo schermo del telefonino (un mitico Nokia delle prime generazioni).

Lo slogan era: «Se avesse potuto comunicare così, che mondo sarebbe?». La campagna, molto suggestiva, suggeriva che la potenza della tecnologia avrebbe consentito di superare muri politici e divisioni linguistiche, e lanciare un «messaggio globale». Un’idea che si prestava (e si presta), suo malgrado, ad alcune obiezioni. Perché, ad esempio, al posto di Gandhi avrebbe potuto esserci Hitler, e lo slogan avrebbe funzionato ugualmente (e anzi Hitler ci fu, e usò magistralmente gli strumenti di comunicazione della sua epoca, mostrando bene che mondo sarebbe stato il suo…).

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Oggi il potere della parola continua ad essere il «valore dominante» della comunicazione globale. C’è una grande enfasi sugli strumenti (le nuove tecnologie, Internet, i miglioramenti di qualità nella trasmissione delle immagini, ecc.): ma è sul linguaggio che si giocano le vere partite, perché la parola contiene una «magia» che i credenti delle religioni rivelate conoscono bene, così come la conoscono gli uomini del potere e quelli della comunicazione. Oggi come in passato imporre il proprio linguaggio è il primo, e decisivo, passo per far pesare il proprio potere. Rimane clamoroso il caso degli spagnoli che portarono la religione cattolica nelle Filippine, ma non insegnarono il castigliano alla gente, ritenuta troppo barbara per parlare nella lingua «sacra» dei conquistadores: così oggi i filippini sono battezzati con nomi spagnoli e parlano tutti inglese, ché il dominatore successivo non si fece certo di questi problemi, anzi intuì molto bene il potere veicolare della lingua, nelle isole come in Africa e in America. In Italia abbiamo conosciuto varie stagioni di forzature del potere sul linguaggio. Il giornalista Mussolini impose (o lasciò compiere) un’italianizzazione forzata di oggetti e luoghi, soprattutto nelle zone dei confini politici che sono anche frontiere linguistiche. Così qui da noi avemmo per un po’ Esille, Salabertano, Ulzio (e Salice d’Ulzio). Ci si fermò di fronte a Beaulard, forse per evitare il grottesco.

Un notevole libro di oltre vent’anni fa descrive bene l’evoluzione moderna di questo fenomeno (R. Hughes, «La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto», Adelphi, 1994). Dove il piagnisteo è quello di ogni minoranza che si sente discriminata e che reagisce prima di tutto imponendo a «tutti» un linguaggio dichiarato più rispettoso delle caratteristiche di tale minoranza. Così, per fare un solo esempio, sono scomparsi dall’italiano (e dall’inglese, ovviamente) i «negri», divenuti via via neri, colorati, afroamericani… C’è un ceto, giornalistico e politico, che si adegua immediatamente a queste innovazioni, con lo scopo di intercettare il consenso di qualche minoranza; i più finiscono per accettare i cambiamenti per quieto vivere, o per comodità, onde evitarsi lunghe invettive sull’uso discriminatorio di certi termini. Il giornalista Gian Antonio Stella ha pubblicato qualche anno fa (2009) il libro intitolato «Negri, froci, giudei», per segnalare che forse, in questa uniformazione forzosa del lessico, c’è qualche problema. Ma a quanto pare il suo tentativo non ha avuto molto successo: alle prime ondate di termini «non discriminanti» sono seguite ulteriori precisazioni e specificazioni. Oggi il caso di una donna morta ammazzata è comunque «femminicidio»; e il piccolo mondo delle tv e dei giornali italiani si è riempito di sindache, assessore, ministre.

È un dilemma da cui pare non si possa uscire. Ogni minoranza attiva si sente discriminata (o, come minimo, poco rappresentata) da una «lingua comune» che non evidenzia certe qualità o che pone l’accento in modo offensivo su certe caratteristiche; e si innesca così un meccanismo «ricattatorio», che impone sempre nuove attenzioni al linguaggio dei politici, degli operatori della comunicazione e anche della gente comune. D’altra parte, come negare che la correttezza del linguaggio è il primo segno concreto di rispetto che ciascun cittadino ha il diritto di aspettarsi dagli altri concittadini?

Il risultato, tuttavia, è una specie di Babele: siamo divenuti tutti «voce che grida nel deserto», consapevoli che i messaggi che lanciamo raggiungono solo più chi è già, per varie ragioni, nostro affine; e assistiamo alla corsa per accaparrarsi l’attenzione degli «altri» attraverso canali sempre nuovi di comunicazione. In questo i social hanno aperto una voragine: perché i «gruppi» forniscono e consolidano l’illusione di ritrovarsi tra amici e nello stesso tempo di poter lanciare il nostro messaggio al mondo intero, alla «rete» che potenzialmente è in ascolto. In più, tutti esigono un linguaggio «semplice», accessibile a tutti. E in questo modo ci si taglia fuori dalla realtà complessa che la modernità ci impone.

Il fatto è che, in una società ormai fatta tutta di minoranze, il tema dell’attenzione del «pubblico» e dell’efficacia dei messaggi è cruciale. Ma questo è il cuore del problema: smarrito un linguaggio comune, forse si sta perdendo di vista anche ben altro: la politica e, in fondo, il significato della democrazia così come lo conosciamo in Occidente. Per definizione la politica è «arte dell’incontro» fra diversi. Solo che, nella società delle minoranze, i politici sono obbligati non a comporre, ma a sommare. Invece di ascoltare ed elaborare un progetto «comune», devono trovare la maniera di interagire con animalisti e vegetariani, ciclisti e automobilisti, in modo da conquistare voti e consensi in aree di cittadini che, diversamente, non si parlano e non hanno alcun interesse a ritrovarsi uniti intorno a un progetto. Peccato che, come ricorda Fabrizio de André nelle sue canzoni da Spoon River, solo il matto si mette a cercare «le parole sicure per farsi ascoltare» («Non al denaro né all’amore né al cielo»).

La crisi della democrazia rappresentativa inizia da Babele ma trova subito applicazioni vistose, e forse pericolose. I «populismi» che attraversano l’Europa sembrano essere in buona parte il frutto di queste incapacità di dialogo, di queste assenze di linguaggi comuni. E le soluzioni che «la rete» propone, o impone, lasciano molto da pensare. Perché sono i colossi mondiali come Google e Facebook che hanno interpretato al meglio il nuovo che essi stessi hanno contribuito a creare. Il film «The circle» (2016) è un buon esempio di racconto futuribile delle logiche di questa «nuova partecipazione» che punta a reinventare una società telecomandata. E Mark Zuckerbeg ha già proposto «all’umanità intera» un paio di piattaforme di intenti per un nuovo umanesimo, fondato ovviamente sulla connessione e l’interazione perpetua. Mentre il defunto Steve Jobs aveva ben chiaro che la creazione di prodotti di alta qualità avrebbe creato una «nicchia» che sarebbe andata ben al di là dei compratori di prodotti Apple, dando vita a uno «stile universale» capace di diventare cultura, e ideologia.

In Italia il caso più vistoso è quello del Movimento 5 Stelle e della sua esplosione proprio attraverso i meccanismi della rete, anche in assenza di regole certe, trasparenza, criteri conosciuti da tutti. Il risultato paradossale, di questi giorni, è che il candidato alla presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica ha iniziato la carriera parlamentare nel 2013 venendo scelto con 189 voti nelle consultazioni digitali del M5S in Campania. Il 19 settembre Di Maio ha partecipato alla cerimonia dello scioglimento del sangue di san Gennaro. Alcuni commenti sono stati all’insegna delle perplessità: «Un giovane vecchio, senza studi né esperienze lavorative memorabili, che viene iscritto da un’azienda privata di comunicazione alla corsa per Palazzo Chigi non è un predestinato. È un miracolato» (Massimo Gramellini, «Corriere della sera»). 

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