Margherita Oggero: «Periferia luogo privilegiato per fare cultura»

Intervista alla scrittrice torinese madrina del festival dei "libri in piola" in Borgo Vittoria

Parole chiave: libri (11), periferia (5), cultura (48)
Margherita Oggero: «Periferia luogo privilegiato per fare cultura»

Margherita Oggero, tra le scrittrici italiane più lette, è nata nel 1940 e vive a Torino. Ha insegnato lettere per più di 30 anni in vari istituti torinesi e, una volta in pensione, nel 2002 ha pubblicato il suo primo romanzo, «La collega tatuata» (Mondadori). Da allora non si è più fermata e ogni suo romanzo è un successo.

L’abbiamo incontrata venerdì 7 aprile a Torino, in Borgo Vittoria, a margine dell’inaugurazione della seconda edizione del festival «Libri in piola», una tre giorni di letture, arte, musica e storia locale promossa dalla «Piola libreria» di Catia Bruzzo, in via Bibiana 31 («La Voce e il tempo» ne ha parlato sul numero di domenica 26 febbraio 2017 a pag.17) per riportare in periferia, attraverso i libri, la cultura «come collante» contro il degrado. Tra le tante proposte, anche due mostre fotografiche: la prima, a cura del Centro di documentazione storica (Cds) su Borgo Vittoria dal 1930 al 1980; l’altra sul «Sudan dimenticato» allestita dall’associazione «Amici di Lazzaro» che ha sede accanto alla Piola.

A far da madrina del festival è stata invitata Margherita Oggero, che ha inaugurato il lungo fine settimana presentando l’ultimo libro dell’amico Bruno Gambarotta, «Non si piange sul latte macchiato» (Manni editore).

Qual è il motivo che spinge una scrittrice di best seller come lei ad accettare di far da madrina ad un Festival letterario di periferia, fuori dai ‘salotti buoni’ della città e lontano dai circuiti culturali che contano?

Io ho deciso di vivere in periferia, in uno dei quartieri torinesi dove la mescolanza delle culture e delle provenienze è in atto da decenni: prima negli anni ‘50-‘60 con l’arrivo in città degli emigrati dal Sud Italia e oggi con gli stranieri dall’Africa, dal Medio Oriente, dall’America Latina. La periferia non mi ha mai spaventato, anzi: è un luogo dove con la mescolanza degli strati sociali si incontrano le culture, in periferia si vive proiettati nel futuro. Non avrei mai potuto vivere nei quartieri «alti», luoghi chiusi, vecchi, autoreferenziali, dove si vive ancora «in caste». Il rumore, i colori, la folla favoriscono il senso di appartenenza ad una comunità più ampia, mi sento cittadina del mondo: per questo credo che la periferia sia un luogo privilegiato per fare cultura, per scambiare cultura, per portare cultura, per imparare a dialogare con chi è diverso da te. Ecco perché sono qui in Borgo Vittoria, mi sento a casa.

Ma in periferia non tutto è rose e fiori…

Certamente, ma in periferia si respira la vita vera, si percepiscono i cambiamenti della società e uno scrittore ha bisogno di essere immerso nel dinamismo, nella multiformità, anche nella difficoltà dell’incontro. C’è una cosa che mi disturba nella periferia perché non favorisce la comunicazione: le insegne dei negozi e degli esercizi stranieri nelle lingue di origine che, come quelle asiatiche o arabe, per noi sono incomprensibili. Bisognerebbe che le amministrazioni non permettessero di esporre insegne dei negozi senza la traduzione in italiano delle merci vendute, è un ostacolo al dialogo e alla mescolanza dei cittadini…

Lei prima di diventare una scrittrice di successo ha insegnato lettere per 33 anni e nei suoi libri la sua esperienza sulla cattedra ritorna spesso. Perché, secondo lei, i ragazzi in età scolare leggono poco?

La letteratura per l’infanzia non è affatto in crisi, i bambini se stimolati da maestre e genitori sono curiosi e si appassionano ai libri. La scuola media è il buco nero della lettura: i motivi certamente sono molti, da internet alla tv, ma la causa principale sono i programmi scolastici, insensati per ragazzini di quell’età e poi per gli adolescenti che iniziano le superiori. I libri che vengono consigliati sono sempre gli stessi da decenni: chi pensa i programmi ministeriali forse non si è accorto che i ragazzi e il mondo sono cambiati…

La professoressa Oggero che libri consigliava ai suoi allievi?

Innanzitutto cercavo di capire quali erano gli interessi dei miei ragazzi. Se, per esempio, un allievo è appassionato di fantasy è durissima obbligarlo a leggere «Il fu Mattia Pascal», «I dolori del giovane Werther» o «La coscienza di Zeno». Io insegnante che non sopporto il fantasy dovrò fare uno sforzo e, anche se ritengo che quel genere abbia uno scarso valore letterario, cercherò, a partire dal fantasy, di portare quel ragazzo a trovare delle analogie con Pirandello o Goethe… tutto dipende dalla passione che ho per l’insegnamento e per i miei allievi. Se riesco a toccare un nervo scoperto di quel ragazzo e provo a consigliargli il libro giusto per quel particolare momento della sua vita ho buone possibilità di riuscire a trasmettergli la passione per la lettura. Agli insegnanti consiglio di suggerire ai ragazzi libri ad personam, è faticoso ma alla fine del ciclo scolastico si raccolgono dei frutti…

Lei è torinese e nei suoi romanzi la nostra città fa spesso da sfondo alle sue storie. Perché è proprio Torino ad ispirarla?

Credo che un romanzo debba essere focalizzato in un luogo fisico, anche se immaginario. Lo scrittore ha bisogno mentalmente di predisporre il suo racconto in un luogo e la città è l’ambientazione ideale. Io poi sono pigra e invecchiando lo sto diventando ancora di più: è molto faticoso spostarsi e Torino è il luogo che conosco meglio, qui sono nata e ho trascorso la mia vita. Non riesco a capire quegli anziani che, una volta raggiunta la pensione, per risparmiare quattro soldi lasciano tutto e vanno a vivere, e a morire, a Tenerife o a Santo Domingo… Come puoi pensare dopo una vita trascorsa in una città o in un paese di sradicarti completamente dal luogo dove hai vissuto? È come dare un taglio netto alla tua memoria, alla tua identità. E se gli anziani smettono di raccontare i tempi passati ai più giovani, ci impoveriamo tutti.

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