Lingue passepartout per il futuro

Analisi – nell’era del sapere tecnologico lo studio dei linguaggi stranieri resta necessario per affrontare le nuove sfide occupazionali

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Lingue passepartout per il futuro

Uno strumento per conoscere più a fondo il mondo in cui viviamo. Ma anche una pratica che ha subìto profondi cambiamenti con lo sviluppo vertiginoso dei new media. Lo studio delle lingue nella società globalizzata continua a essere fondamentale per il proprio bagaglio culturale e per affrontare con più sicurezze il mondo del lavoro? In una quotidianità che sembra privilegiare le competenze alle conoscenze, e dove tutto o quasi passa attraverso un sapere tecnologico in costante evoluzione, l’assimilazione della parola straniera, scritta e orale, appare ancora necessaria? O sta smarrendo la sua funzione, riducendosi, in qualche modo, ad un retaggio del passato?

«La prima cosa da mettere in evidenza», risponde il professor Stefano Gobber, preside della Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università Cattolica di Milano, «è che la lingua più importante da sapere è la propria».

In che senso?

Nel senso che chi non la conosce perfettamente apprende con più difficoltà le altre lingue, i loro significati e le loro categorie. La conoscenza della lingua, poi, è sempre legata agli scopi per cui viene usata. Se per comunicare a livello personale può bastare una conoscenza generica, quando si passa a un ambiente lavorativo, di carattere per esempio commerciale o bancario, è necessario avere una conoscenza specialistica approfondita. C’è poi una terza dimensione che oggi, grazie alla globalizzazione, sta diventando ancora più importante: la conoscenza della cultura, delle tradizioni, dei modi di gestire una trattativa, un incontro di lavoro. Avere la percezione sottile di come le persone si muovono e parlano, sapere cosa fare per mettere l’interlocutore a proprio agio. Per questo è bene conoscere, oltre a una ‘lingua franca’, capìta da entrambi, la prima lingua dell’interlocutore: così si può stabilire un rapporto più stretto tra le persone.

In questi frangenti, dunque, la tecnologia non è determinante…

Serve fino a un certo punto. La conoscenza di una lingua, infatti, permette di scorgere punti di vista diversi sulla realtà, apre prospettive di collaborazione e di mediazione. E tutto ciò ha una rilevanza profonda sul sapere di una singola persona: cambia il modo di intendere le cose, gli altri, la società. E i rapporti tra gli individui diventano più stretti.

Ci sono novità nel repertorio delle lingue più richieste in termini di studio?

L’inglese ormai è una lingua presupposta. Certo, non a tutti serve un’ottima conoscenza dell’inglese britannico o di quello statunitense, ma sicuramente è utile parlare la ‘lingua franca’ che permette di comunicare tra stranieri. Anche l’Unione europea non può prescindere dall’inglese, nemmeno dopo la Brexit: perché è la lingua degli affari, è ‘di servizio’ e viene parlata da tutti i Paesi settentrionali della Ue (basti pensare a Finlandia, Paesi baltici e Polonia). Però sta emergendo il cinese. I cinesi all’estero si sono costruiti una solida competenza in lingua inglese, soprattutto i più giovani, ma per i Paesi che hanno interessi in Cina diventa fondamentale conoscere l’idioma locale. Il quadro internazionale delle lingue ormai si sta modificando, non basta più conoscere solo quelle europee. Anche l’arabo standard, soprattutto nella sua varietà egiziana, sta acquistando molta rilevanza. È chiaro, le varietà dialettali locali sono importanti solo per chi ha continui rapporti di lavoro con etnie specifiche. Conoscere idiomi extraeuropei può addirittura essere cruciale in una trattativa.

Le lingue europee, allora, segnano il passo?

Il francese mantiene un’importanza fondamentale nella diplomazia. Ma permette di comunicare anche con tutta l’Africa francofona, e, viste le grandi migrazioni di questi ultimi anni, questo aspetto non è certo da sottovalutare. È la lingua delle istituzioni internazionali e regge bene il confronto con l’inglese. Senza contare poi che per noi ha una grande rilevanza, essendo una lingua romanza, appartiene cioè al nostro stesso orizzonte culturale. Anche lo spagnolo ha grande importanza. Non tanto perché parlato in Spagna, quanto perché diffuso nell’America latina e negli Stati Uniti. Conoscere bene una lingua significa comprendere i modi diversi con cui la società si organizza e permette di risolvere problemi comuni. Se per esempio ci fosse una conoscenza maggiore della lingua tedesca, almeno in una delle sue tre varianti (austriaco, tedesco di Germania e tedesco parlato nella Svizzera tedesca), si comprenderebbero meglio molte scelte politiche e sociali di questi Paesi che spesso in Italia appaiono incomprensibili.

Ma in Italia, in definitiva, si studiano ancora le lingue straniere?

La situazione è migliorata, però di poco. Rimane ancora molto da fare e da consolidare. È importante che nel nostro Paese si capisca che nessuna lingua è isolata dalle altre, ci sono prestiti, calchi, è insomma un mondo inclusivo. Sta poi emergendo chiaramente che le persone che conoscono molto bene il dialetto della propria regione hanno maggiore predisposizione verso lo studio delle lingue. Questo dato non dovrebbe essere sottovalutato: innanzitutto perché porta a rivalutare i nostri dialetti, un patrimonio culturale che non deve scomparire; e poi perché la consapevolezza di buona riuscita, partendo da questi presupposti, potrebbe motivare molti italiani a studiare le lingue straniere. Ancor più e meglio di adesso.

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