Le neuroscienze e il caso difficile dell’esperienza cosciente

Al polo culturale di Sant'Alfonso un confronto tra il teologo don Zeppegno e lo scienziato che riflette sul tema

Parole chiave: neuroscienza (1), scienza (11), persona (5), dio (158), confini (6)
Le neuroscienze e il caso difficile dell’esperienza cosciente

La coscienza è uno degli aspetti più affascinanti e allo stesso tempo enigmatici della mente. Essere coscienti significa provar qualcosa quando ammiriamo un’opera d’arte, quando assaporiamo il nostro gelato preferito o anche quando guardiamo un semplice puntino bianco sullo schermo di un computer nei laboratori di psicologia sperimentale. Un computer o un robot, almeno così crediamo, non provano invece nulla, per quanto complessi possano essere la loro capacità di calcolo o il loro comportamento esteriore. La coscienza ha la strana caratteristica di essere un’esperienza interamente privata. Noi conosciamo direttamente la nostra esperienza cosciente proprio perché è la nostra, mentre la coscienza altrui la prendiamo semplicemente come un dato di fatto: a torto o a ragione pensiamo che gli altri provino all’incirca le stesse sensazioni che proveremmo noi nelle medesime circostanze. E se non sappiamo bene, possiamo sempre chiedere. Ma quando una persona perde la capacità di comunicare, per esempio in seguito a un danno cerebrale importante, come facciamo a sapere se e cosa si prova ancora? Come sa bene chiunque abbia avuto a che fare con lo stato vegetativo, in cui non vi sono segni esteriori di vita psichica, questa è una domanda tanto cruciale quando terribilmente difficile.

 

Con i recenti sviluppi delle neuroscienze cognitive, le cui tecniche ci permettono oggi di osservare il cervello “al lavoro”, si sono create grandi aspettative circa la possibilità di misurare oggettivamente la coscienza “dal di dentro”. In fondo, pensiamo, la chiave di risposta deve stare lì, in quell’ammasso molliccio e biancastro del peso di circa un chilo e mezzo alloggiato nella scatola cranica. E in effetti ha suscitato grande scalpore la scoperta, alcuni anni fa, di risposte cerebrali intenzionali in alcuni pazienti in stato vegetativo. Vediamo di cosa si tratta. In un caso, una paziente è stata sottoposta a registrazione dell’attività cerebrale mentre le veniva chiesto di immaginare di giocare a tennis (era un’appassionata) oppure di immaginare la propria casa. Ebbene, l’attivazione cerebrale è risultata diversa nei due compiti, e, soprattutto, simile all’attivazione rilevata in un gruppo di volontari sani mentre svolgevano il medesimo compito. In un altro caso si è sfruttato il metodo dell’immaginazione mentale per permettere al paziente di rispondere “sì” o “no” alle domande poste dallo sperimentatore. La richiesta era di immaginare di fare attività fisica per rispondere “sì” e di immaginare la casa per rispondere “no”, sempre registrando la concomitante attivazione cerebrale. E’ stato così possibile imbastire una rudimentale conversazione. Eccone un pezzo: ”Domanda: Ti chiami John? Risposta: Sì. Ti chiami Mike? No. Siamo nel 1999? No. Siamo nel 2012? Sì. Le banane sono gialle?  Sì. Siamo in un supermercato? No. Siamo in un ospedale? Sì”. Penso che pochi di noi nutrirebbero dubbi sulla presenza, in questi due pazienti, di almeno una minima forma di coscienza.

 

Quale morale traiamo da questi dati? Primo, le neuroscienze sono fondamentali per provare a “dar voce” alle persone che non possono comunicare, non solo nello stato di coscienza minima ma anche quando la coscienza è verosimilmente intatta, come nella cosiddetta sindrome dell’imprigionato. E’ bene tuttavia sottolineare che queste evidenze non ci fanno capire come il cervello generi un’esperienza cosciente. Questo obiettivo sembra ancora lontano. Secondo, di per sé quelle risposte cerebrali non dimostrano automaticamente la presenza di coscienza, né la misurano, siamo noi a doverle interpretare. Questa distinzione è importante, perché rimette la palla nel campo delle decisioni umane, che hanno sempre un quid di errore e di arbitrarietà. Per esempio, il dibattito attorno al famoso test di Turing (The imitation game, termine che curiosamente non si riferisce alla vicenda narrata nel film bensì, appunto, al test di conversazione con un computer) ci ricorda che, anche quando crediamo di interloquire con un essere che pensa, non è detto che sia sempre così. Più prosaicamente, è difficile rinunciare alla tentazione di assumere con il paziente il nostro punto di vista di persone sane, dimenticandoci che in fondo non sappiamo quale esperienza cosciente quelle risposte cerebrali davvero riflettano.

 

Infine, una cautela è d’obbligo. Da qualche caso eclatante non bisogna alimentare l’illusione che i pazienti in stato vegetativo siano in realtà dei pazienti minimamente coscienti. Semmai, potrebbe essere invocato il principio di precauzione, assumendo, se ci sono indizi e fino a prova contraria, che un barlume di coscienza ci possa forse essere. E tuttavia anche il principio di precauzione non può essere applicato indiscriminatamente. Altrimenti dovremmo concludere che mangiare un pomodoro potrebbe essere un crimine. Di nuovo, è la responsabilità della scelta.

* Professore Associato di Psicofisiologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

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