L'altro D'Azeglio e la Civiltà Cattolica

La bella storia del conte piemontese fratello degli esponenti liberali Roberto e del più famoso Massimo

Parole chiave: civiltà cattolica (1), d'azeglio (1), liberali (2), gesuiti (14), piemonte (91)
L'altro D'Azeglio e la Civiltà Cattolica

Ê torinese uno dei fondatori de «La Civiltà Cattolica», la prestigiosa rivista dei gesuiti italiani che ha raggiunto i 4.000 numeri. È il conte Prospero Taparelli d’Azeglio, fratello dei liberali Roberto e Massimo, senatori del Regno d’Italia e Massimo presidente del Consiglio (7 maggio 1849-21 maggio 1852) sotto Vittorio Emanuele II, re di Sardegna. Prospero diventa gesuita con il nome di Luigi, filosofo e pensatore, colui che conia la locuzione «giustizia sociale»

Nello studio «La fondazione de “La Civiltà cattolica”. Una rivista al servizio del Papa e della Chiesa» lo storico padre Giovanni Sale scrive: «Il primo gruppo di scrittori era co­stituito da valenti studiosi gesuiti che si erano distinti nel campo delle scienze teologiche, filosofiche e letterarie e avevano dato prova di essere buoni scrittori».

Vi compaiono i maggiori pensatori della Compa­gnia in Italia: Luigi Taparelli d'Azeglio, filosofo del diritto, conosciuto per il suo «Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto» e per aver sostenuto a Palermo nel 1848 i moti rivoluzionari; Matteo Libera­tore, studioso di filosofia tomista e autore delle «Institutiones Philosophiae»; Antonio Bresciani, valente scrittore e letterato; Giovanni Battista Piaciani, studioso di scienze naturali.

La Civiltà Cattolica» esce per la prima volta a Napoli il 6 aprile 1850, 167 anni fa. Primo direttore è padre Carlo Maria Curci, ma a volerla è soprattutto Pio IX, in quel momento esule nella fortezza di Gaeta nel Regno delle due Sicilie dei Borboni. I superiori dei gesuiti – con il preposito generale Joannes Philippe Roothaan – vorrebbero una rivista in latino ma Curci si batte per l’italiano. L’idea che spinge alla fondazione è difendere «la civiltà cattolica» minacciata dai nemici della Chiesa, in particolare i liberali e i massoni, che ispirano il Risorgimento italiano. Curci scrivesul primo numero: «Condurre l’idea e il movimento della civiltà a quel concetto cattolico da cui sembra da tre secoli avere fatto divorzio».

La rivista ha subito un notevole successo. Del primo fascicolo, stampato in 4.200 copie, si devono tirare ben sette edizioni. Aggiunge Sale: «Il fatto che la rivista venisse pubblicata in uno Stato retto da un regime assoluto gettava un'ombra sull'effettiva libertà dell'impresa. In effetti fu immediatamente sottoposta non solo alla censura preventiva del ministro dell'Istruzio­ne del Regno ma anche a quella della polizia borbonica, che utilizzava tutti i suoi poteri per bloccarne la diffusione. Vi era perciò il rischio che, nell'opinione pubblica, venisse considerata as­servita agli interessi della monarchia assoluta e che perciò fosse nemi­ca dei governi costituzionali e rappresentativi, come soste­nevano i denigratori di questa impresa: i liberali, i massoni, i radicali, tutti ugualmente anticlericali e nemici della Chiesa. I padri scrittori, soprattutto Taparelli e Curci, non volevano essere considerati i “puntellatori” di quel regime destinato a morire».

La rivista è trasferita a Roma a causa dell’occhiuta censura borbonica. Si attiene al principio che non intende parteggiare per nessuna forma di governo, ma «li rispetta tutti purché siano legittimi (altrimenti li tollera)». Padre Taparelli, in una lettera indirizzata al fratello Massimo, presidente del Consiglio, scrive che gli attacchi de «La Civiltà Cattolica» alla politica piemontese non si devono interpretare come «avversione agli organi rappresentativi, quanto con il dolore dei mali della Chiesa», cioè per plitica anticlericale del governo subalpino. Anche durante la guerra dei franco-piemontesi contro l'Austria, nel 1859, la rivista adotta la tattica del silenzio sulle questioni politiche. Pio IX che, con il breve apostolico «Gravissimum supremi» (12 febbraio 1866) istituisce «perpetuamente» il Collegio degli scrittori che fino al 1933 pubblica gli articoli in forma anonima.

Quarto di otto figli di Cesare, conte di Lagnasco e marchese di Montanera-d’Azeglio e della contessa Cristina Morozzo di Bianzé, Prospero nasce a Torino il 24 novembre 1793. Il padre è membro attivo delle Amicizie cattoliche, ispirate dal venerabile Pio Brunone Lanteri. Dopo un corso di esercizi spirituali predicati da Lanteri sente la vocazione religiosa. Abbandona gli studi all’ École spéciale militaire de Saint-Cyr di Parigi ed entra nel Seminario torinese e poi a Roma nel noviziato dei Gesuiti a Sant’Andrea del Quirinale. Ordinato sacerdote il 25 marzo 1820 dallo zio, cardinale Giuseppe Morozzo della Rocca, vescovo di Novara, studia Tommaso d’Aquino e ottiene a Palermo la cattedra di Diritto naturale. Il «Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto» (1843) è una sorta di enciclopedia di morale, diritto e politica. Per diversi anni è rettore dell’Università Gregoriana, dove avvia la rinascita della filosofia scolastica. Il suo pensiero influenza le encicliche «Aeterni Patris» (1879) e «Rerum novarum» (1891) di Leone XIII.

Accesa la critica al liberalismo filosofico e politico, tanto che Luigi D’Azeglio è definito da padre Antonio Messineo «il martello delle concezioni liberali». Si schiera  contro lo Stato che subordina la vita sociale alla legge civile: tutto ciò è figlio del protestantesimo. Nel 1857 afferma: «Questa Italia già esiste e ha dalla sua religione principalmente, e poi dalla sua lingua, dai suoi interessi e da mille altre relazioni che cotesti tre elementi producono, quella unità, senza la quale non sarebbe nominabile, né intellegibile (e come potreste dire Italia se Italia non fosse?). Ma poiché essa non è fatta a seconda delle utopie multiformi de’ suoi rigeneratori, essi vogliono a ogni costo acconciarla a modo loro; e l’acconceranno per le feste». In vent’anni scrive sulla rivista 200 articoli. Con dibattiti pubblici, libelli, saggi si oppone al  Risorgimento e simpatizza per un breve periodo per il movimento neoguelfo di Vincenzo Gioberti. Muore a Roma il 21 settembre 1862. 

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