Contro la violenza del linguaggio

Politica e dintorni, qualche riflessione sul degrado di dibattito pubblico. Intervento di Marco Fracon sulla Voce del Popolo del 19 aprile

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Contro la violenza del linguaggio

Ora basta! Non possiamo, come cittadini, continuare ad accettare con rassegnazione la tirannia del populismo, del greve e del volgare. Non possiamo continuare ad ascoltare e dimenticare nel giro di pochi giorni, quando le cose dette sono così gravi. È ora di cominciare una campagna di resistenza civile. «Cosa farei io al posto di Alfano e Renzi? Con un preavviso di sfratto di sei mesi, raderei al suolo i campi rom», ha detto Matteo Salvini. Grazie per la cortesia del preavviso. Il Vaticano ha commentato «frasi stupide e assurde». La presidente della Camera Laura Boldrini dicendo: «frasi inquietanti».

Su parole come queste devono farsi alcune riflessioni. Una retorica così grave deve essere oggetto di pensiero critico. Protestare un meccanismo immediato fra detto e fatto, «uno dice qualcun altro farà», forse è troppo semplicistico. Anche se non è da escludere che possa accadere: gli esaltati ci sono sempre. Mediatamente, però, dicendo si crea un clima e in quello qualcuno troverà legittimazione per le proprie azioni. Il processo è molto conosciuto: si identifica un nemico, un capro espiatorio, e su di esso si scaricherà la violenza. Che sia l’arbitro, l’ebreo, il comunista, il gay, il rom e via dicendo. Il sistema è sempre quello.

La storia dovrebbe insegnarci che queste cose sono già accadute. Forse per Salvini è un complimento, ma in passato si sono cominciate ad usare espressioni come «vite non degne di essere vissute» o «spazio vitale» e le conseguenze le conosciamo. Anche, sul polo opposto, i «nemici della rivoluzione» o «nemici del popolo» non hanno avuto sorte diversa.

Le parole pesano. Producono effetti: il regolamento di conti fra Marchionne e Montezemolo è cominciato con una battuta: «nessuno è indispensabile».

La deriva linguistica degli ultimi decenni in Italia è evidente. Dalle formule di Berlusconi (la più nobile era «scendere in campo») al sublime eloquio di Gasparri. Dai fuori onda dei conduttori tv, alle intemperanze verbali dei talk show di cui maestro è Sgarbi. Dai post di Grillo alle uscite di Salvini. Dalle volgarità leggiadre di Littizzetto a quelle truci di Fedez o di Piero Pelù. È ormai un continuo declinare verso il peggio, in un linguaggio sempre più aggressivo, triviale, imbarbarito. Le parole pesano. Il linguaggio verbale è il segno dell’evoluzione della specie umana. Attraverso il linguaggio filtriamo e comprendiamo la realtà. Il linguaggio è lo strumento con cui trasmettiamo i significati.

Bernard Lonergan, in un suo scritto, dice che la costituzione di uno Stato si può rivoluzionare in due modi. Il primo è scriverne un’altra. Il secondo è, pian piano, interpretarne diversamente le parole. Le parole pesano, perciò ne siamo responsabili. In un appunto del suo diario personale, «Tracce di cammino» (Qiqajon 2006, pag 131), il due volte segretario dell’Onu e premio Nobel per la pace Dag Hammarskjold, scrive: «rispettare la parola è la prima regola nella disciplina che può educare una persona alla maturità intellettuale, emotiva e morale. Rispettare la parola; usarla con estrema cura e incorruttibile amore per la verità, ecco una condizione perché maturino la società e la specie umana. Abusare della parola equivale a disprezzare l’essere umano. Mina i ponti, avvelena le fonti, ci rimanda indietro nella lunga via dell’evoluzione umana. ‘Ma io vi dico che di ogni parola infondata…’(Mt 12,36)». Suggerisco di leggere il versetto e quello successivo del vangelo di Matteo citato da Hammarskjold.

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