Scrive l’ex Procuratore Capo

Caselli dopo il Giubileo: "Misericordia? Si può"

Carceri sovraffollate, polemiche fra giustizialisti e buonisti, lentezza dei tribunali: nell’intervento del magistrato una riflessione sulle ragioni che fondano la Giustizia, la condannare i malfattori, il fondamentale bisogno di ricucire le ferite

Parole chiave: Giustizia (15), Caselli (2), misericordia (105), Torino (730)
Caselli dopo il Giubileo: "Misericordia? Si può"

La misericordia non deve contrapporsi all’affermazione della giustizia. Deve intervenire soltanto dopo che si è fatto ogni sforzo perché la giustizia si realizzi. È stato scritto che «chi ama vuole la giustizia per l’altro e non soltanto per se medesimo». Nel «volere la giustizia per tutti» si manifesta una delle forme dell’amore cristiano. In questo modo la fede acquista un respiro alto. Significa che cercare giustizia porta a trovare libertà e solidarietà. Significa porre e difendere regole di vita che consentano di trattare l’intera umanità come una famiglia unita. Significa accoglimento intelligente e responsabile delle prospettive che il Vangelo ci apre.

La più adatta alle esigenze dei tempi che stiamo vivendo rimane la prospettiva legata al precetto «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Una delle citazioni evangeliche più conosciute. Ma spesso rimossa. Perché non sempre il tema della fede riesce ad intrecciarsi con l’orizzonte concreto della giustizia (soprattutto terrena). Gli scenari contrapposti tra fede e giustizia sono: «Cielo» da una parte e «Terra» dall’altra. Riflettere sul tema della giustizia significa quindi porsi questo interrogativo: dobbiamo cercare la giustizia in Cielo (rinviandola, per attenderla nell’al di là)?; oppure l’essere beati è condizionato dal nostro avere «fame e sete di giustizia» già su questa terra? Giustizia è dividere in parti uguali oppure è costruire risposte diverse tra persone diseguali? Quale giustizia è la premessa necessaria per ogni ulteriore, e solo successiva, bontà e solidarietà?

Dal «fame e sete di giustizia» che riguarda il piano della giustizia sociale, passiamo a considerare i rapporti fra giustizia e legalità. Non sinonimi, ma concetti diversi. Senza legalità (osservanza della legge scritta) non può esserci giustizia, ma la legalità da sola non ha la forza di superare le disuguaglianze tra i cittadini. I poveri, gli emarginati, gli esclusi, i deboli, non cessano di essere tali per il solo fatto che tutte le leggi scritte siano osservate. Certo, molti dei loro diritti, disattesi o negati, possono essere meglio riconosciuti grazie al rispetto di alcune regole fondamentali. Ma ci vuole qualcosa di più: fare della giustizia una pratica quotidiana, capace di consegnare a ciascuno quello che gli appartiene, quello che gli serve per vivere decorosamente. Un compito che ha bisogno della legalità, ma deve anche coinvolgere la responsabilità personale, lo sforzo, l’impegno di ciascuno di noi. «Fame e sete di giustizia» diventa allora una provocazione: perché la nostra giustizia, nel rispetto della legge scritta, sappia andare oltre i codici, pur nell’osservanza dei codici.

Per un giurista che opera in Italia, l’interfaccia del «fame e sete di giustizia» evangelico è l’articolo 3 cpv. della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». In questo modo la Costituzione disegna una democrazia ‘emancipante’, ispirata a criteri di giustizia, che comprende non soltanto il diritto-dovere di andare a votare quando è ora, ma anche il diritto ad una qualità della vita che valga la pena di essere vissuta. Cioè il diritto ad un reddito decoroso e ad una vita civile. Per tutti. Anche per chi è ammalato, anche per chi è disoccupato o precario, anche per chi è anziano, anche per lo straniero onesto che voglia vivere rispettando le regole del Paese che lo ospita.

«Fame e sete di giustizia» significa anche dare alla giustizia la forza di vincere il male col bene. Prima c’era la legge del taglione, restituire al male ricevuto altrettanto male. Ora l’indicazione è vincere il male col bene. Attenzione: questo non significa affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare, per quanto difficile sia, ad inventare forme di risposta capaci di ricomporre una fraternità ferita, divisa da inimicizie profonde. Allora ecco il tema della giustizia non ‘burocratica’, sensibile cioè alle esigenze e alle specificità delle persone, non solo le vittime ma anche coloro che hanno sbagliato. In questa attenzione alle esigenze delle persone coinvolte volta a volta in problemi giudiziari sta il senso di una ‘giustizia giusta’: che provveda sì a far espiare la pena e ‘risarcire’ la vittima, ma evitando nel contempo (con logiche, per così dire, di ‘misericordia laica’, compatibili con l’ordinamento giuridico) che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare, quando sia disposto a farlo.

Quanto poi alla quotidiana amministrazione della giustizia nelle aule dei tribunali, vi è da dire che il lavoro dei magistrati è ‘giusto’ se riesce ad essere al servizio degli uomini, della loro libertà, della loro giustizia. E non soltanto (anche, ma non soltanto) al servizio della legge. Perché senso ultimo della legge (ancora l’articolo 3 cpv. della Costituzione, norma fondamentale per interpretare tutte le leggi ordinarie) è la difesa del debole, affinché chi è diseguale possa crescere in eguaglianza rispetto agli altri. In altre parole bisogna usare la legge per l’uomo e non contro l’uomo, prestando attenzione a chi ha sbagliato e nello stesso tempo a coloro che sono stati feriti dall’errore di chi ha sbagliato. Questa è giustizia dal volto umano, questa è giustizia che rifiuta ogni logica vendicativa. Questa la giustizia che può tenere conto (pur nei limiti precisi fissati dalla legge) anche del concetto di misericordia.

Non si può, a questo punto, non accennare al problema del carcere. Ormai da tempo non più argine contro le forme davvero pericolose di delinquenza, ma ‘contenitore’. Di soggetti che hanno commesso reati e perciò sono detenuti legittimamente in base alle norme vigenti (che in quanto tali vanno rispettate: semmai modificate, ma finché vigenti rispettate). Soggetti, però, che spesso sono protagonisti di problemi sociali che non sappiamo o non vogliamo vedere, o non sappiamo come risolvere. Per cui li scarichiamo nel carcere. Ecco allora che il carcere è diventato una sorta di ‘discarica sociale’, stracolma di malati, emarginati, disadattati, tossicodipendenti, poveri... Oggi soprattutto stranieri, per i quali il carcere è la conclusione disastrosa di una situazione fin dall’inizio difficile. È come il naufragio di una zattera che già navigava a pelo d’acqua: carica di illusioni, appesantita dalla zavorra della miseria e dell’ignoranza (senza dimenticare, va da sé, che esiste anche la grande criminalità internazionale). Un carcere per il quale occorre chiedersi se sia davvero l’unica risposta possibile. O non convenga alternarvi altre sanzioni. Più idonee ad avviare percorsi di reinserimento, capaci di ridurre la recidiva e perciò utili (oltre che ai singoli, così strappati ad una spirale che finisce per stritolarli) anche alla società, che dal recupero di chi altrimenti tornerebbe a delinquere non può che trarre vantaggi in termini di sicurezza. In questa prospettiva, si aprono, nel perimetro della giustizia, spazi significativi anche alla misericordia ‘laica’.

Infine, per il cristiano, tutto questo ragionare sulla giustizia significa anche uscire dalle sacrestie. Non tanto come luogo fisico, piuttosto le sacrestie che sono dentro ciascuno di noi. Come area di interessi soltanto egoistici, mentre uscire dalle sacrestie significa coinvolgersi nella più ampia logica sociale. Non soltanto osservanza di precetti formali, ma anche passione, sacrificio, impegno, presenza accanto ai più deboli. Ci hanno sempre insegnato che peccato è soprattutto fare le cose che non si devono fare. Meno intensamente ci hanno insegnato che peccato è pure non fare certe cose. Invece, anche l’indifferenza, anche l’omissione possono inquinare le coscienze. E possono soffocare ogni misericordia. 

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