La Chiesa della Trinità torna a splendere

A Torino aperte le visite nella secentesca chiesa dell'Arciconfraternita in Via Garibaldi. I restauri hanno svelato la magnificenza della cupola 

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La Chiesa della Trinità torna a splendere

È la prima chiesa barocca di Torino. Un gioiello firmato dai maestri Vitozzi, Castellamonte e Juvarra, tutti architetti di Corte, a testimonianza di una committenza importante. A cento passi dall’aulica piazza Castello, è sempre stata nel cuore dei torinesi per la sua storia e per la sua maestosità architettonica. Qui ha celebrato messa papa Pio VI: una grande tela, oggi conservata nella sagrestia, ricorda quella storica visita. Affidata a don Luca Peyron, rettore e direttore della Pastorale universitaria, non è solo una ricchezza artistica, ma un approdo per tanti giovani che cercano un’oasi di silenzio e preghiera.

È la secentesca chiesa della SS. Trinità, in via Garibaldi angolo via XX Settembre. Se non siete stati tra i fortunati che tra la primavera e l’estate, durante l’avvio dei lavori di restauro, hanno vissuto l’avventura di salire fino ai 47 metri di altezza della lanterna, non dovete perdere l’occasione di una visita. È vero, non è più possibile godere della vista mozzafiato sul Duomo, la Cupola del Guarini, Palazzo Reale e San Lorenzo. Ma c’è ancora tempo per assaporare quell’atmosfera davvero unica che si respira entrando in grande cantiere aperto, in bilico tra passato e futuro. Grazie al primo lotto di lavori che hanno interessato la cupola - costo 600 mila euro, finanziati da Compagnia di San Paolo e Arciconfraternita della Santissima Trinità - la chiesa è finalmente tornata a risplendere. Resta però avvolta dai ponteggi, in attesa di trovare i fondi per completare il complesso intervento conservativo. Chi varca oggi il portone di via Garibaldi ha il privilegio di assistere in diretta alla rinascita di un’opera incarnata nel patrimonio storico culturale barocco della città.

Tutto lo sforzo del primo, importante tassello è nella passione dell’architetto Michele Ruffino, direttore dei lavori. Il posto giusto per ammirare i restauri appena conclusi e per scoprire la storia di questo straordinario edificio, è al centro del rosone sul pavimento della chiesa. Ed è proprio qui che l’architetto si ferma e inizia a spiegare: «Tutto in questa chiesa voluta dall’Arciconfraternita ricorda la Trinità. Tre sono le entrate: una verso via Garibaldi, una in via XX Settembre e una verso la sagrestia. Tre entrate che formano un triangolo equilatero inscritto in una circonferenza, schema geometrico esplicitamente riferito al simbolismo trinitario. Tre sono anche gli altari, sfalsati di 120° tra loro». Il simbolo trinitario ritorna sulla boiserie settecentesca in legno di noce della sagrestia ed è il tema centrale degli affreschi della volta realizzati da Luigi Vacca e Francesco Gonin.

Dopo il Concilio di Trento, l’animazione religiosa cittadina viene affidata alle confraternite, ossia gruppi di laici consacrati ai principali misteri della vita cristiana. Le sedi delle confraternite necessitavano di spazi di culto per le funzioni liturgiche dei confratelli, che, in una sorta di competizione nella magnificenza della devozione, assumono nel corso del Sei e Settecento la forma di vere e proprie chiese monumentali, che vanno ad affiancarsi alla trama delle parrocchie e delle case religiose. «La SS. Trinità», dice Ruffino, «viene progettata nei primissimi anni del Seicento dall’architetto ducale e membro dell’omonima confraternita Ascanio Vitozzi, che vi è sepolto. L’opera è successiva ai suoi lavori per il Santuario di Vicoforte, per la chiesa dei Cappuccini a Torino e per il nuovo palazzo ducale».

Mentre l’architetto spiega, assorto e appassionato, entrano ed escono i visitatori catturati, naso all’insù, dal chiarore della lanterna della chiesa, di un bianco abbagliante, nonostante i 47 metri di altezza, ripulita dai fumi dell’incendio che durante i bombardamenti del luglio 1943 danneggiarono l’abside, il coro e parte degli ambienti dell’ex Convalescenziario (oggi convertiti in appartamenti) e annerirono le pareti dell’edificio. A garantire l’apertura della chiesa, tutti i pomeriggi (dalle 15 alle 18, tranne il lunedì e il mercoledì), la dedizione dei volontari. Come la signora Angela, già volontaria della Sindone.

Un restauro importante, quello della Santissima Trinità, atteso da anni. Per capire, basta guardare i numeri: l’interno dell’aula della chiesa è avvolto dai ponteggi, una gabbia di tubi lunga 14 chilometri, per un totale di 1.500 metri quadri di piani di lavoro e 37 tonnellate di ferro. Da marzo a novembre 2016, una squadra di 20 professionisti del Centro per il restauro di Venaria hanno ripulito la volta e gli stucchi della lanterna. L’Arciconfraternita, spiega Ruffino, «si sta attivando per cercare sostegno per realizzare il secondo lotto: le pareti dell’aula della chiesa». Il piano di recupero totale prevede in tutto sei lotti: dopo la cupola, l’aula, la sagrestia, il coro, il vestibolo e la facciata su via Garibaldi.

Ed è proprio nel coro sopraelevato che si possono leggere le antiche ferite ancora aperte. Basta chiudere gli occhi per vedere i monaci riuniti a pregare o i viandanti e i pellegrini in cerca di ristoro, una storia di devozione e carità che ha attraversato i secoli. Che fare oggi di questi 150 metri quadri suggestivi, ma vuoti? E il grande, affascinante tema del cantiere-laboratorio aperto tra passato e futuro ritorna prepotente. «Le cronache», racconta Ruffino, «dicono che bruciò per una settimana: sono andati perduti l’archivio, la quadreria, il coro ligneo e le statue. Il fumo è salito, depositandosi sulle pareti. Lo spazio è grande, ma vuoto. Tutto da ripensare». A delimitare e chiudere il coro, una vetrata antica realizzata a mano con maestria nel 1888, molto probabilmente dai vetrai di Torino.

La storia nella chiesa della SS. Trinità si legge anche sui muri. Ricostruirla significa ripercorrere le fasi salienti del barocco torinese, grazie all’alternanza degli architetti di Corte di Casa Savoia. Il direttore dei lavori ci guida fino alla sagrestia e indicando la parete di sinistra ci svela le diverse sfumature dell’intonaco, lasciate a vista: dal verde acqua all’avorio. La storia di secoli passa anche da qui.

Come passa dai finti marmi, «che si distinguono dalla pietra quasi solo per la mancanza di giunti. Sembrano pietra, ma sono intonaci in pasta omogenea». E dalle figure dipinte sulla cupola, cinque volte l’uomo a grandezza reale, «ma in profondità si riducono per esaltare l’aspetto prospettico, un accorgimento non così frequente». Potrebbero raffigurare le virtù, ma non c’è accordo tra gli studiosi: «L’archivio è andato distrutto, si sta approfondendo per andare a definire che cosa rappresentano». Anche gli stucchi della lanterna sono eccezionali: «All’epoca esistevano gli stampi, ma questi sono tutti manufatti, opera eccellente degli artigiani: sono diversi uno dall’altro». Uno scrigno di arte e storia, tutto da scoprire. 

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