Dalì e Dante: il sogno e la "Commedia"

In mostra a Palazzo Blu a Pisa, 150 opere del pittore spagnolo "reinventano" capolavori del maestro del passato

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Dalì e Dante: il sogno e la "Commedia"

Una testa colta nell’attimo prima di frantumarsi, sembra tenuta insieme solo dalla forma. E la forma di quel cranio è la cupola di San Pietro in Vaticano, quegli inconfondibili pannelli che salgono a chiudersi. Ma quella forma è, in realtà, una Vergine di Raffaello… Non è il giochetto di un illusionista, ma il percorso che Salvador Dalì ha compiuto, studiando e ristudiando i classici, ricavando da essi quelle forme che poi si sono imposte al nostro immaginario «moderno». La mostra di Pisa (ospitata nello splendido Palazzo Blu) evidenzia lo «scheletro» di questi studi nel classico. E si scopre subito che il percorso di Dalì non si ferma alla «citazione», al richiamo occasionale ma entra profondamente nei quadri, e prima ancora nello stile, nella storia, nella vita dei pittori: con quella «grandezza» che solo un grande può permettersi.

Nella raccolta di Palazzo Blu figurano opere di Dalì che hanno come modello, esplicito e implicito, Raffaello e Michelangelo; ci sono le opere ricavate dalla «Vita» di Benvenuto Cellini; ma soprattutto c’è la serie completa dei cento acquarelli dedicati a illustrare la «Divina Commedia». Il cammino di Dalì attraverso i classici è esso stesso «rinascimentale»: cioè non sceglie un solo percorso conoscitivo (la forma, il materiale, la «fama» dell’autore): ma si propone di comprendere l’intera «umanità» del pittore cui si richiama, facendola propria nei modi che sono solo suoi. È il caso della testa della Vergine citata all’inizio, dove l’esplosione di quella testa diventa immediatamente per chi guarda un richiamo potente all’esplosione atomica, il tabù che ha dominato il secondo dopoguerra (Un tabù diventato anche uno dei film più spettacolari e intelligenti dell’epoca, il «Dottor Stranamore»…). Ma Dalì ha anche intitolato alcune versioni del suo quadro al «Concilio Vaticano II», anch’esso esplosione innovativa degli anni ’60, dove la Chiesa si rimette in discussione e dove anche i suoi simboli più potenti (il Crocifisso, la Vergine) hanno bisogno di essere «trasfigurati», o comunque riletti in modo completamente diverso dal passato.

Si scorre, dunque, attraverso lo choc continuo di opere che «abbiamo già visto» ma che sono in realtà completamente nuove, che dobbiamo interpretare e «fare nostre» come se, ancora una volta, fossimo chiamati a rileggere la storia sacra non attraverso le vetrate di una cattedrale medievale ma ricavandola dai graffiti e dai murales di una stazione del métro… Una delle opere che più impressionano, in questo incrocio di riletture, è la testa di Giuliano de’ Medici, nelle tombe delle Cappelle fiorentine. Una testa che è insieme michelangiolesca e romana, e che Dalì azzera e trasforma collocandola nel contesto dei suoi deserti inquietanti, dentro un «sogno» in cui, tuttavia, la morte non è meno presente che nel marmo scuro della notte scelto da Michelangelo. Il vuoto, l’angoscia per l’«assenza» del giovane potente rapito dalla morte si ritrova nel lavoro di Dalì che porta in primissimo piano tre quarti del volto «lavorato», a dominare una scena di solitudine e di interrogativi. Analoghe operazioni sono documentate, in mostra, sulla Pietà di San Pietro e sull’Adamo della Sistina.

Ma sono le tavole della «Commedia» i lavori che meglio danno la misura della «invenzione» del pittore spagnolo. Le tavole furono commissionate negli anni ’50 dal Poligrafico dello Stato; ma in Parlamento scoppiò poi una polemica sull’affidare a uno «straniero» l’illustrazione della maggiore opera d’arte italiana (qualcosa di simile, a un livello ancora più basso, è avvenuto in tempi recenti sotto elezioni, quando si rivendicò l’«italianità» di Alitalia, creando una cordata di capitali nostrani per salvare la compagnia di bandiera. Che infatti adesso è di proprietà di un emirato arabo). Il Poligrafico ritirò la commessa, Dalì vendette poi le tavole a un editore francese, al doppio del prezzo concordato con gli italiani. Fu un successo editoriale senza precedenti.

Le scene dantesche che tutti conserviamo nella memoria collettiva vengono «macinate» da Dalì nel linguaggio surreale del sogno, della scomposizione, della memoria, con effetti di grande impatto (comici, grotteschi, traffici) e sempre travolgenti. Dalì è ben cosciente della sfida che Dante rappresenta; ogni parola del poema è «visiva» ma è, per l’appunto, «parola». Le immagini si formano nelle terzine come la fusione di una scultura, e diventano intoccabili, perché sono perfette. E ancora, è Dante stesso ad avvertire come anche il vedere venga meno, quando si tratta di raccontare non il terragno Inferno ma l’impalpabile Paradiso: «E così, figurando il paradiso / convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso» (Paradiso XXIII, 61-63). Senza carne, senza corporeità, anche la gloria di Dio e dei suoi beati rivela tutta la distanza dalla condizione umana.

L’illustrazione della «Commedia» è una sfida permanente. Il più noto a cimentarsi, in tempi moderni, fu Gustave Doré, che nell’800 compì la grande impresa di raccontare il poema seguendo passo passo la narrazione dei versi. Quelle incisioni divennero, e sono tuttora, molto popolari proprio perché ricalcano quasi letteralmente le terzine di Dante, con un’attenzione estrema ai particolari e, naturalmente, una grande qualità professionale. Un «interprete» molto particolare di Dante fu Amos Nattini, parmigiano dalla vita avventurosa, compagno di Gabriele D’Annunzio nelle imprese della guerra. Le sue tavole sulla «Commedia» si fondano su una corporeità marcata, che da grande forza alle immagini di Purgatorio e Inferno, e riesce a contrastare efficacemente anche le luci soffuse del Paradiso.

Il lavoro di Dalì compie invece su Dante una «rivoluzione». Prima di tutto nella scelta dei temi. Nella raccolta di Dalì non ci sono Paolo e Francesca né Ulisse e Diomede; non c’è Omero, né Farinata; non ci sono Giuda Bruto e Cassio; e dello stesso Lucifero si riflette la presenza sul volto di Dante. Le immagini evocate, da Gerione a Minosse, fino a san Bernardo e alla Vergine Maria, rimangono «riconoscibili» ma l’intero cammino è trasfuso in un immaginario che non è certo quello didascalico di Gustave Doré. A cominciare, per esempio, dalla «selva oscura» con cui inizia il poema: che qui è il deserto giallo, con una strada che si perde all’orizzonte, e un ciuffo d’alberi che sarebbe giù conquista raggiungere… Fantasmi, manichini alla de Chirico, corpi aggrovigliati come il magnifico Pier delle Vigne: il Dante di Dalì è un avventuriero mistico che si riempie gli occhi del sogno stesso di Dio. Ma il lavoro dello spagnolo fa riferimento, anche qui, a un classico: Dalì ha ben presente, più che Doré, il primo «illustratore» della «Commedia», che non è da meno di Raffaello e Michelangelo: Sandro Botticelli. Alla «Nascita di Venere» si richiama l’apparizione di Beatrice, al termine della seconda cantica.

«Dalì. Il sogno del classico», Pisa, Palazzo Blu, fino al 5 febbraio 2017. Informazioni sul sito ufficiale: http://www.mostradalipisa.it/

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