Truffelli: l’Azione Cattolica sfidi l’individualismo

A colloquio con il presidente dell'Ac in visita a Torino per l'incontro con il gruppo diocesano. Immagini della giornata 

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Matteo Truffelli a sinistra con Fabio Dovis, presidente dell'Azione Cattolica diocesana

Viviamo nel tempo dell’«individualismo spinto fino al punto da appassire su se stesso, fino a renderci tristi». Ma «questo è il tempo che ci è stato donato dal Signore» e «nei cambiamenti occorre starci» per dare «al mondo ciò di cui ha bisogno, l’annuncio del Vangelo». Testimoniando - «chinandosi sulla vita delle persone» - la «bellezza e la pienezza per la vita» che dà agli uomini di questo tempo «l’incontro con il Signore». Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione Cattolica, «legge» - in questa intervista a «La voce e il tempo» al termine di un incontro con i responsabili dell’associazione a Torino - ciò che caratterizza il mondo di oggi e, con uno sguardo di «fiducia e stima» verso le persone di questo tempo, indica i passi dell’Azione Cattolica, nel solco del magistero di papa Francesco.

Lei sostiene che la cultura e il contesto sociale pongono tante sfide alla vita di fede dei credenti. Quali sono queste sfide?

La prima grande sfida, come ha detto anche papa Francesco nell’Evangelii gaudium, è la tristezza individualista. È l’individualismo che caratterizza la cultura, l’economia, le relazioni umane del nostro tempo; è un individualismo spinto fino al punto da appassire su se stesso, fino a renderci tristi. E a questo si legano anche tutti quei fenomeni di fragilità nei rapporti interpersonali, di fragilità dei valori e di precarietà nell’esperienza familiare, nel lavoro.

Perché sono una sfida alla vita di fede?

Perché costringono in qualche modo il credente a misurarsi con questa realtà che tende a spegnere l’umano, a renderci individui invece che persone consapevoli che la bellezza della vita si spende in una comunità. Sfida perché cultura e contesto sociale si infiltrano nel modo stesso in cui viviamo la nostra esperienza spirituale, che diventa sempre più individuale e autocentrata invece che comunitaria e tale da spingerci all’incontro con gli altri, al servizio con gli altri, all’impegno nel mondo.

Lei ha intitolato il suo ultimo libro «Credenti inquieti». Perché ha voluto dare così grande valore all’inquietudine?

Perché per un credente l’esperienza della fede non può mai essere qualche cosa che ti assopisce, che ti tranquillizza, che ti fa stare seduto. Necessariamente crea un’urgenza, appunto, un’inquietudine, di condividere con altri, di testimoniare ad altri, la bellezza dell’esperienza che è l’incontro con il Signore. È anche l’inquietudine che nasce dal dover sempre misurare questa gioia - che deriva dall’incontro con il Signore - nella realtà quotidiana, che è anche fatta di ingiustizie, di povertà, di violenze, che non possono mai lasciarci tranquilli, appagati, contenti solo per se stessi. C’è poi quell’inquietudine che nasce dalla necessità di misurarsi sempre col fatto che la fede non è una risposta buona una volta per tutte, ma è un continuo tornare sulle difficoltà, sui dubbi, sulle fatiche, sullo scoraggiamento, ma pure sulla bellezza, sulla felicità e sulla grandiosità dell’esperienza umana. Proprio l’esperienza umana interpella la fede: io non ho mai vissuto un’esperienza di fede priva di domande e sono convinto che, anzi, proprio le domande siano necessarie, ci aiutino a maturare nella fede. Per questo una fede non può che essere inquieta. La vita del laico è particolarmente abitata da questa inquietudine, perché vive calato in modo forte nella quotidianità.

Il Papa vi ha dato il mandato della missione. Come intendete viverlo?

Nel farci vicini alla vita delle persone, nel chinarci sulla vita delle persone, per farle sentire innanzitutto accolte, ascoltate e accudite. Oggi, in modo particolare, le persone, le famiglie, le comunità hanno bisogno di cura, hanno bisogno di qualcuno che manifesti il desiderio di prendersi cura di loro.

E questo anche in un ambiente di lavoro…

Certo, questo è il modo in cui si testimonia l’essere credenti in un ambiente di lavoro, oppure a scuola o per strada. Una missione non a parole, ma tramite persone che sanno spendersi… C’è una cosa sui cui Papa Francesco insiste molto – e io lo condivido fino in fondo –: l’incontro con il Signore si traduce immediatamente in fraternità. Credo sia, in quest’epoca, un compito che riguarda tutta la Chiesa e, dentro la Chiesa, anche l’Azione Cattolica.

La famiglia è al centro di grandi cambiamenti. Con quali urgenze affrontate questo tema?

Quando si parla di famiglia si cammina su un terreno delicato, dove sono in gioco il desiderio di amare, di essere amati, la propria identità… tratti che riguardano l’essere della persona umana. È un tema che richiede particolare delicatezza, cura, rispetto, capacità di ascolto, che non vuol dire incapacità anche di indicare un punto alto e bello. Anzi, è il contrario. Si può indicare un progetto alto e bello se è un progetto che riguarda la vita. E quindi la vita va ascoltata ed accolta. Io credo che rispetto al tema della famiglia possa valere, traslando, quanto dice papa Francesco – citando papa Benedetto – quando afferma che lui desidera una Chiesa che non cresce per proselitismo ma per attrazione. Penso che questo si possa dire anche per la proposta alta, bella, della famiglia che noi facciamo. È una proposta che si può promuovere non per principi, ma per attrazione, per testimonianza, facendo percepire alle persone la grandiosità, la bellezza, la pienezza dell’esperienza della famiglia che proponiamo. L’esortazione Amoris laetitia, in fin dei conti, ci invita a fare questo.

Non basta, dunque, affermare una teoria perfetta di famiglia….

La teoria va benissimo, ma la questione è come aiutare le persone a cogliere e a fare esperienza che in quella proposta di famiglia c’è la pienezza e la bellezza per la sua vita. Finché viene presentata come principi, come un dover essere, si farà più fatica. Se invece si riesce a far fare esperienza che quella proposta è la pienezza dell’essere sarà più facile anche poi formarla, sostenerla, accompagnarla. Ecco: l’altro grande tema rispetto alla famiglia è sicuramente quello di un sostegno vero, di un accompagnamento vero alla famiglia che vive oggi in modo particolare le difficoltà, le precarietà, le fragilità che derivano dalla cultura e dal contesto sociale di cui parlavamo prima.

Lei dice che occorre avere stima verso questo mondo in cambiamento…

Questo è il tempo che ci è stato donato dal Signore, questo è il mondo che ci è stato donato dal Signore. È il tempo in cui il Signore ci chiede di vivere ed è il tempo in cui ci chiede di annunciare il Vangelo. E io sono sicuro che non ci sia un tempo non adatto per l’annuncio del Vangelo. E allora, nei confronti del nostro tempo, bisogna certamente essere consapevoli di tutte le difficoltà, di tutte le problematicità, di tutti i limiti, di tutte le sue durezze, ma anche essere consapevoli che non si tratta di contrapporsi per annunciare qualche cosa. Occorre stare dentro questo tempo, sapergli voler bene, avere anche stima, fiducia nelle persone che lo vivono. Io credo che la strategia della roccaforte non sia più percorribile. Quando ci sono grandi cambiamenti, ancora di più bisogna starci dentro, per poter seminare, per gettare un seme buono, che è poi il Vangelo.

A tutta la Chiesa papa Francesco chiede di essere «fermento di dialogo». Che cosa significa per l’Azione Cattolica?

Vuol dire prendere sul serio il fatto di confrontarsi con le persone, con le idee, sapendo mettersi in gioco, sapendosi relazionare autenticamente, ascoltando per far percepire il desiderio di ascoltare e poi avere coraggio di mettersi in strada cercando il terreno comune, cercando con ostinazione ciò che può unirci. Occorre accettare di fare una cosa pericolosa: contaminarsi, cercare alleanze. Questo non significa «venite con me dove vi porto io». Questo non è dialogo, è istruzione… è il maestro che insegna! Il dialogo è qualcosa in cui ci si mette in gioco, in cui si assume il rischio di confrontarsi seriamente con l’altro. Si tratta di andare alla ricerca delle persone, delle realtà ecclesiali con le quali progettare insieme il futuro. Compito di chi vive l’Azione Cattolica è creare legami con le persone, condividendo il cammino.

La «scelta religiosa» dell’Azione Cattolica: lei sostiene che è stata molto spesso fraintesa…

Dico che è stata fraintesa perché si è pensato che la scelta religiosa volesse dire scegliere di ritirarsi da mondo e dedicarsi a ciò che è «religioso». È stata giusto il contrario! È stata la scelta di porgere al mondo ciò di cui il mondo aveva - e ha anche oggi - più bisogno: l’annuncio del Vangelo, il seme di vite buone che crescono nutrite dal Vangelo. Come associazione ecclesiale la «scelta religiosa» ha voluto anche dire prendere consapevolezza, alla luce del Concilio Vaticano II, che non è servendosi del potere politico ed economico che si può favorire l’evangelizzazione. Al contrario, è nell’impegnarsi di più per l’evangelizzazione che si può costruire una società anche più umana, più giusta, più libera.

Significa aver rinunciato a prospettive di egemonia?

Vuol dire non ricorrere alla politica o al potere per fare ciò che occorre, invece, fare come Chiesa: testimoniare, evangelizzare, annunciare il Vangelo. E questo lo si fa vivendo evangelicamente, formando persone che vivano evangelicamente e che nel mondo fanno questo, non fuori dal mondo ma lo fanno proprio nel mondo. Per il mondo! Questa è la «scelta religiosa», tutt’altro che il sottovalutare l’importanza dell’impegno nel mondo. 

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