Irene Stefani è beata. La celebrazione il 23 maggio 2015 a Nyeri in Kenya

Un profilo della suora bresciana formatsi a Torino

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Irene Stefani è beata. La celebrazione il 23 maggio 2015 a Nyeri in Kenya

Il 1° novembre 1930 nella chiesa di Ghikondi in Kenya il parroco padre Carlo Andrione all’inizio della Messa annuncia all'immensa folla: «Suor Irene, la vostra “nyaata, madre misericordiosa”, è morta». Ottantacinque anni dopo, sabato 23 maggio 2015 a Nyeri in Kenya viene proclamata beata la missionaria bresciana formata a Torino, ventisettesima recluda delle Missionarie della Consolata che raggiunge così il fondatore, don Giuseppe Allamano, beatificato 25 anni fa nel 1990.

Aurelia Jacoba Mercede Stefani nasce il 22 agosto 1891 ad Anfo in Valle Sabbia (Brescia) sulle sponde del lago di Garda. Battezzata il giorno seguente, quinta di 12 figli di Giovanni e Annunziata Massari, cresce in una famiglia forte e coraggiosa - il padre è organista della parrocchia - in un ambiente impregnato di fede. Ragazzina vivace e bella, dimostra una spiccata sensibilità per l'apostolato tra i coetanei e la carità. A 13 anni confida ai genitori: «Mi farò missionaria».

Nel 1905 un incontro provvidenziale: in paese passa padre Angelo Bellani, missionario della Consolata. Mercede vorrebbe partire subito ma il papà la frena perché troppo giovane. Il parroco don Francesco Capitanio scrive al canonico Giuseppe Allamano, che ha appena fondato a Torino nel 1901 i Missionari e nel 1911 le Missionarie della Consolata. Il papà e il parroco la accompagnano in carrozza e giungono a Torino il 19 giugno 1911, vigilia della festa della Consolata: padre e figlia si inginocchiano davanti all’Allamano «in un gesto di offertorio sublime», come scrive nel 1964 suor Gian Paola Mina in «Scarponi della gloria»: «Fu la ventisettesima recluta dell’Istituto fondato die­tro invito di Pio X». A quelle giovani coraggiose don Allamano dice: «Voi siete e dovete essere le colonne dell'Istituto: colonne salde, robuste, anime temprate a ogni sacrificio, disposte a tutto. Qui dentro, voglio gente scelta, di prima qualità, gente che non cerchi se stessa, ma solo Dio e le anime».

Si inserisce perfettamente nell’«Istituto della Consolata per le missioni estere». Il 24 gennaio 1914 emette i voti religiosi e l’Allamano la chiama Irene. Il 28 dicembre 1914 da Genova salpa la «Porto Alessandretta» con a bordo i missionari mons. Gaudenzio Barlassina, prefetto apostolico del Kaffa, padre Giovanni Ciravegna e padre Lorenzo Sales, due fratelli coadiutori, 4 missionarie compresa la 23enne Irene. Un mese dopo l’attracco a Mombasa in Kenya. Esclama «Tokumye Yesu Kristo! Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase in lingua kikuyu che per ora conosce.

L’Europa «esporta» il primo conflitto mondiale nelle colonie inglesi e tedesche dell’Africa. Irene presta servizio negli ospedali militari di Voi in Kenya e poi di Kilwa Kiwinje, Lindi, Dar-es-Salaam in Tanzania. Gli ammalati sono ammassati in  grandi capannoni, abbandonati a se stessi, in un tanfo insopportabile, in situazioni disperate e ripugnanti. Con solare dol­cezza, con amore materno e un mite sorriso suor Irene lava e fascia piaghe e ferite, distribuisce medicine e cibo, imbocca gli ammalati più gravi e più deboli, cura e nutre i corpi, annuncia l’amore di Dio. Impara lingue e dialetti e a tutti parla di Gesù.

Terminato il conflitto, dal 1920 va nell’incipiente missione di Ghekondi e vi rimane dieci anni. Si dedica all’insegnamento; corre «volando» su e giù per le colline; gira i villaggi con il rosario in mano; incontra la gente; invita alla scuola e al catechismo;  cura i malati e assiste le partorienti; salva i bambini abbandonati nella brughiera; ottiene molte conversioni. Per tutti diventa «nyaata, madre misericordiosa». Si propone di «essere tut­ta di Gesù, con Gesù, per Gesù». Si dedica all'insegnamento, alle visite ai vil­laggi, all'attività catechistica, alla corrispondenza epi­stolare con i primi giovani entrati in Seminario e con gli operai emigrati per lavoro. Accorre a ogni ora del giorno e della notte nelle capanne dei malati e al letto dei moribondi. Di fronte alle necessità degli altri non sa resistere: si dedica al prossimo con rispetto e affabilità, senza distinzioni di stato sociale, cultu­ra e religione. Le viene spontaneo dire una buona parola, parlare di Dio, invitare alla fede e alla preghiera. Fa tutto con gioiosa convinzione, incurante delle difficoltà e dell’indifferenza. Questa straordinaria dedizione nasce dall'Eucaristia e dalla preghiera.

Nell'ottobre 1930 scoppia la peste. I missionari e le missionarie vanno ad assistere i morenti e a consolare gli infermi. Anche Irene si strapazza per gli appestati. II 20 ottobre avverte un diffuso malessere, ma non molla. Va a Kahumbu per trovare Julius, che l'aveva offesa nell'intento di prenderne il posto nella scuola. Il catechista che l'accompagna racconterà: «”Nyaata” entrò nella capanna dove era Julius e, veduto in che stato era ridotto, lo prese, lo sollevò, lo sostenne e in quel momento anche lei prese la peste». Lo assiste fino alla morte, come racconta suor Margherita Maria Durando: «Julius morì nel­le sue braccia e, siccome nessuno voleva scavare la fossa, incominciò lei per prima a scavare».

Quando torna, non si sente per niente bene e si mette a letto con febbre altissima. Nel delirio par­la di Dio e incoraggia alla fede. La sua ultima frase è: «Gesù, amore, dammi amore... Gesù ti amo!». Reclina il capo e spira. Ha 39 anni. È notte, ma la notizia vola sulle colli­ne di Ghikondi. I kikuyu abitualmente non piangono per la morte di qualcuno, gridano senza versare lacrime, ma que­sta volta è diverso: file interminabili le rendono omaggio e una folla sterminata segue la bara che viene calata nella fossa: il suo sepolcro tra le rocce diventa subito meta del pellegrinaggio dei tanti cristiani e dei musulmani.

«È morta una santa» scrive Ferdinanda Gatti, superiora delle Missionarie di Nyeri alle consorelle a Torino. Veramente eccezionale e immediata la testimonianza scritta da 32 consorelle raccolte nel volume «Soavi memorie» nel 1931. Ne scrivono riviste e giornali: «Missioni Consolata» di Torino, «L'apostolato missionario» e «La madre cattolica» di Brescia, «Agenda Fides» di Roma, «L’Italia» di Milano. Nel 1934-35 la celebre scrittrice Angela Sorgato nel libro «Donne ardimentose» nel capitolo X «Alle falde del Kenya» racconta la coraggiosa azione aposto­lica delle Missionarie ed esalta l'eroica donazione della suora bresciana.

Quando riesumano la salma per la causa di beatificazione, l’8 settembre 1995, ritrovano il rosario, la croce e gli scar­poni della gloria. Gli africani testimoniano: «Non è stata la peste a portarla alla morte: l’ha uccisa l’a­more». Erano trascorsi 65 anni e le suore della Consolata da tempo avevano lasciato quel­la missione, ma la gente di Ghekondi la ricordava ancora e gli anziani testimoniarono: «Finalmente abbiamo potuto dire quello che avevamo nel cuore, prima di morire. L’amore la spingeva». L’amore della «Nyaatha, mamma misericordiosa». 

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