Tra i bimbi di Santo Domingo cresciuti con i progetti torinesi

Diario di viaggio – le visite e gli incontri del direttore dell'Ufficio Catechistico in Ecuador tra i missionari che la nostra quaresima di fraternità sostiene da anni 

Parole chiave: ecuador (6), chiesa (665), diocesi (138), missione (38), prastaro (1)
Tra i bimbi di Santo Domingo cresciuti con i progetti torinesi

1 gennaio. Dopo la settimana in Guatemala vissuta nella memoria soprattutto affettiva, di don Ennio Bossú, inizio l’anno con la visita in Ecuador dove sono ospite delle suore del Cottolengo.

2 gennaio. Padre Walemberg un giovane Giuseppino del Murialdo mi guida nella visita al centro di Quito. La chiesa di San Francesco della fine del 1500, la chiesa di Sant’Ignazio, il Carmelo basso mi travolgono col loro splendore che mi lascia senza fiato: sono tutte rivestite d’oro. Dopo pranzo il padre mi porta alla loro casa nella periferia di Quito dove gestiscono una parrocchia e hanno anche la casa di formazione. Un edificio grande, semplice e alquanto spoglio.

3 gennaio. Alle 6 partiamo per Santo Domingo dove ci attendeva la comunità fondata da padre Sereno, di cui da molti anni finanziamo i progetti con la Quaresima di Fraternità. Lungo viaggio, più di tre ore salendo e scendendo attraverso la cordigliera. Arrivati ci accoglie padre Cristian. Nel centro ospitano un’ottantina di ragazzi e bambini che hanno difficoltà familiari, spesso nessuna scuola li vuole più, qualche ragazza è stata anche oggetto di violenze. Durante il giorno frequentano la scuola interna e nel contempo fanno alcuni «corsi» per imparare un mestiere. Padre Cristian mi parla delle storie dei ragazzi e di come sia impegnativo stare loro accanto. Arriva poi padre Sereno che finalmente conosco di persona. Un robusto sessantenne, veneto, missionario alla vecchia maniera. Mi porta col suo pulmino e visitiamo la parrocchia e due succursali. In ogni chiesa mi racconta dei lavori che vi ha fatto, di come si è procurato le risorse, di che cosa vuole ancora costruire. Mentre prendiamo il caffè padre Sereno mi parla del lavoro che per anni ha fatto a Quito: attraverso lo sport ha tolto tanti ragazzi dalla strada, lui parla di più di una decina di migliaia. Al ritorno ci mettiamo quasi 4 ore per giungere a Quito. Suor Franca mi serve un po' di cena e nel frattempo mi racconta di come in occasione del terremoto si sia immediatamente attivata una catena di solidarietà fra tutti gli ecuadoregni. La sola diocesi di Quito ha fatto un convoglio di quasi 50 camion con gli aiuti raccolti.

4 gennaio. Uscendo dall’aeroporto di Manta vedo alla mia destra un grosso tendone sotto il quale ci sono viaggiatori in attesa, col caldo che fa avranno pensato ad una veranda per rendere più piacevole l’attesa. Appena dopo i saluti suor Donata mi dice «hai visto qui c’era l’aeroporto, col terremoto è crollato ed è stato già tutto sgomberato, ora è sotto i tendoni». Prima di arrivare al convento passiamo a vedere la «chiesa della Dolorosa», struttura gravemente colpita dal terremoto. É chiusa, crepe e calcinacci ovunque. Al fianco è già stata realizzata una chiesa provvisoria di canne. Mi assale una forte tristezza che cresce col racconto della suora che indicandomi spiazzi fra le case mi dice chi vi abitava prima del terremoto, chi è morto e chi è stato ferito. Arriviamo al convento. Una casa semplice annessa ad una cappella. In due piccole stanze hanno avviato un centro di assistenza per bambini e per le mamme, mentre nel cortile, sotto un porticato fanno catechismo ai bambini del quartiere. Mi accompagnano poi al centro per anziani e malati terminali, la responsabile è suor Mary, una esile donna indiana con una forza ed una determinazione da lottatrice. Visitiamo prima la cappella, il «luogo centrale della casa». Quindi la centrale dell’impianto per l’ossigeno, realizzata anche con gli aiuti di Torino. Poi il reparto dei malati terminali, ognuno nel suo letto, collegato ad un monitor o all’ossigeno. La suora ha una carezza ed un sorriso per ciascuno. Mentre continua la visita, la suora mi parla della storia della fondazione, delle molte cose fatte, del peso della gestione ordinaria: nessuno aiuta a pagare gli stipendi e le utenze. Dopo pranzo mi accompagnano a Portoviejo alla casa del Vescovo. Vengo accolto da don Walter, ci eravamo conosciuti via mail subito dopo il terremoto. Allora era missionario nella foresta amazzonica, poi il Vescovo lo ha richiamato per dedicarsi alla ricostruzione delle chiese. Hanno 92 chiese, 32 sono state danneggiate, 22 sono completamente crollate o sono state abbattute. Insieme al Vescovo visitiamo prima la cattedrale e poi il centro della città che è praticamente ancora tutto chiuso e sembra una città fantasma. La sera del terremoto il Vescovo, insieme al parroco della cattedrale fece un lungo giro per la città per confortare la gente, molti chiedevano di essere benedetti perché Dio potesse continuare a proteggerli.

5 gennaio. Alle 7 celebriamo la Messa nella cattedrale danneggiata. La celebriamo nel rumore di un cantiere attivo. Alla Messa partecipano i ministri della comunione, indossano un giubbetto blu con scritto ministro dell’eucarestia. Alla comunione ciascuno viene con la sua teca e, prima di comunicarsi, fa segno con le dita di quante particole ha bisogno. Dopo colazione partiamo per il lungo giro delle zone terremotate, faremo 400 km. A Padernales, l’epicentro del terremoto, la chiesa è stata distrutta così come la casa dei padri e delle suore. I morti sono stati più di 600. Andiamo poi a Jama, una città che è sempre stata passiva e tranquilla. Si presenta ancora così, però questa desolazione è aumentata dai segni della distruzione. La Chiesa non c’è più, le due scuole sono crollate, di una è rimasto un piccolo pezzo del muro di recinzione, proprio quello in cui era scritto il nome della scuola. La Chiesa provvisoria è un tendone fatto di pali e piazzato sulla strada al lato della vecchia chiesa. In un angolo hanno messo un bel presepio. Visitiamo anche una zona periferica in cui, con l’aiuto della Caritas della Norvegia, sono state costruite alcune case in legno che ospiteranno delle famiglie. Facciamo poi un giro nella zona verso il mare, qui ci sono ancora tendoni e baracche provvisorie. Don Walter mi dice che se passerò di qui fra un anno troverò tutto come adesso. Andiamo a Canoa, dove è rimasto in piedi solo ed inspiegabilmente il campanile della chiesa. Passiamo quindi da Bahia de Caraquez, una città turistica sulla foce del fiume, anche qui distruzione e morte, alcuni alberghi sono ancora lì, sventrati ma in piedi. La tappa, successiva è a Calceta. La Chiesa è stata danneggiata, mentre i locali parrocchiali sono crollati. Hanno già iniziato a ricostruirli, ma hanno soldi solo per farne una parte, il parroco è preoccupato poiché ha circa 3 mila bambini al catechismo e non sa dove sistemarli. Arriviamo finalmente a Rocafuerte. Qui c’è la Chiesa più antica della diocesi, ha 140 anni! Il parroco si è imposto col comune che la voleva demolire (probabilmente per un gioco di mazzette sui futuri appalti della ricostruzione). Le suore avevano una grande scuola che è stata completamente distrutta. Verrà ricostruita con un consistente contributo della Santa Sede.

6 gennaio. Di nuovo in viaggio, destinazione Esmeraldas. La città mi appare molto degradata. La casa delle suore è in un quartiere povero, abitato in maggioranza da persone afroamericane. Due case più avanti del convento, nella via stretta e fatiscente, c’è la scuola Cottolengo. La scuola era nata come asilo, poi col crescere delle esigenze e con lo sviluppo delle leggi sull’istruzione è diventata sempre più grande. Ora ha tre blocchi: l’asilo, le elementari e le medie. La nostra diocesi gestisce alcune adozioni a distanza qui nella scuola, per cui mi fanno incontrare i bambini «adottati». Dopo pranzo andiamo in parrocchia. È gestita dai padri del Cottolengo: padre Matteo un indiano «del tamiland» come mi spiega e padre Emilio, Kenyano che già conoscevo. Anche loro hanno chiamato i ragazzi assistiti con le adozioni. Ci sono 3 universitari, 2 delle superiori e gli altri delle elementari e medie. La mamma ed il papà di 4 fratelli ringraziano dicendo che senza l’aiuto non avrebbero potuto far studiare i loro figli. Dopo l’incontro, con padre Emilio e suor Shiba, andiamo al supermercato; vogliono fare un po' di torte da vendere con le mamme dei bambini disabili e così iniziare con loro un piccolo gruppo perché possano sentirsi anche loro accolte e considerate. Mi portano poi ad un punto panoramico. La vista di insieme mi conferma il senso di squallore e degrado che pervade la zona delle suore. La città è al fondo di una valle sulla foce del fiume Esmeraldas che scorre lento, sporco e limaccioso.

7 gennaio. Rientro a Quito. Dopo pranzo suor Franca mi porta a vedere la loro opera in parrocchia. Oltre a fare il catechismo, proprio il sabato pomeriggio mentre siamo lì, hanno anche un centro in cui danno pranzo ai bambini e fanno fare i compiti, in questo sono aiutate da alcuni volontari dell’Engim, poi hanno un centro per anziani che vengono al mattino per stare insieme e consumare uno spuntino. Vi è poi un ambulatorio e una farmacia insieme ad un guardaroba. Molto materiale lo ricevono da donatori locali, ma non basta mai. I locali sono tutti compressi in una costruzione. Da poco la suora ha avviato un orto. Durante la cena la più giovane delle suore mi dice: «è proprio bello sapere che Dio, comunque sia e al di là di ciò che sono e che faccio mi ama e mi vuole bene. Vorrei poter far capire questa gioia a tanti».

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