Giorno della Memoria: i Cattolici che salvarono gli Ebrei

Il ricordo di presbiteri e laici piemontesi impegnati nella lotta contro l'oppressione e l'aberrante violenza nazifascista

Parole chiave: resistenza (23), cattolici (72), ebrei (11), memoria (14)
Giorno della Memoria: i Cattolici che salvarono gli Ebrei

«Perché non ricordare la figura mitissima di padre Giuseppe Girotti, il valoroso biblista domenicano accanto a quell’anima di fanciullo di padre Giovanni Himmelrech, colto francescano olandese, entrambi incarcerati e seviziati dai nazisti per avere nascosto degli israeliti?». Così scrive mons. Carlo Manziana, deportato nel campo di sterminio di Dachau.

«Qui non ci sono ebrei. Ci sono solo figli di Dio e anche voi siete figli di Dio» disse la suora agli ufficiali SS che nel novembre 1943 a Firenze erano a caccia degli ebrei nella casa delle Pie Operaie di San Giuseppe. Così la fondatrice, madre Maria Agnese Tribbioli (1879-1965) salvò i fratelli Cesare e Vittorio, di 2 e di 5 anni, e la mamma Marcella, moglie del rabbino Simone Sacerdoti, riparato nel Convitto Ecclesiastico.

«L'aiuto offerto dai parroci, sostenuti e coadiuvati dalle comunità e dall'Azione Cattolica, è complesso e a tutto campo: dalla corrispondenza epistolare con i giovani parrocchiani in guer­ra al soccorso materiale e morale alle vittime dei bombardamenti, agli sfol­lati e ai perseguitati per motivi razziali e politici. Non c'è comunità che non abbia offerto soccorso agli ebrei. Il clero di Moncalieri e i Sacramentini, facendo riferimento al segretario dell'arcivescovo, mons. Vincenzo Barale, soccorsero un nutrito numero di ebrei fuoriusciti dalla Francia. Di fronte ai dati oggettivi, convergenti e inconfutabili, bisogna rico­noscere che i parroci torinesi, coadiu­vati dai giovanissimi vice, nella vergognosa e diffusa latitan­za delle autorità civili, furono davvero “i defensores civitatum”».

Don Giuseppe Tuninetti, storico della Chiesa subalpina, nel 1996 ha pubblicato l’opera monumentale «Clero, guerra e Resistenza nella diocesi di Torino. Nelle relazioni dei parroci del 1945» (Piemme). Ma, per vergognosa e colpevole dimenticanza, sui libri di storia non troverete una parola. È giusto ricordarli nel «Giorno della memoria».

Giuseppe Girotti (1905-1945) - «Aiutava gli ebrei» è l’accusa scritta sul registro del campo di Dachau, nel quale la matricola n. 113355 è stato internato e ucciso. Nato ad Alba il 19 luglio 1905, entra tra i Domenicani a Chieri e il 3 agosto 1930 è ordinato sacerdote. Innamorato della Bibbia, si specializza all’École Biblique di Gerusalemme. Si dedica all’insegnamento di Sacra Scrittura, Ebraico ed Esegesi biblica, nel Seminario domenicano di Santa Maria delle Rose. Personalità anticonformista si contrappone alla protervia dei gerarchi fascisti, che lo tengono sotto controllo. «Tutto quello che faccio è solo per la carità» dice. E non esita a soccorrere gli ebrei perseguitati dalle leggi razziali del 1938. Sotto l’impulso di Pio XII e dei vescovi, migliaia di israeliti e perseguitati politici sono nascosti nei conventi e nelle parrocchie di Roma e di tutta Italia. Padre Girotti è tradito da un miserabile che aveva aiutato e cade nel tranello della polizia fascista. Il 29 agosto 1944 inizia una terribile via crucis che lo porta nel lager di Dachau, primo campo di concentramento nazista con la famosa e macabra scritta «Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi». Bolgia infernale dove regnano abbrutimento e privazioni di ogni genere. Vi passano 3.800 preti e oltre 1.500 sono uccisi dopo le più raffinate umiliazioni con sadismo nazista. Infu­ria un’epidemia di tifo e i prigionieri sono divorati dai pidocchi. Smagrisce a vista d’occhio, ha lancinanti dolori reumatici e le gambe gonfie: «Sono solo più pelle e ossa. Un mucchietto di ossa e pelle flaccida». Il  suo olocausto si compie il giorno di Pasqua, 1° aprile 1945: è ucciso con una iniezione di benzina. Sulla sua cuccetta i compagni scrivono «Qui dormiva san Giuseppe Girotti». Ventotto giorni dopo gli americani liberano Dachau. Il 14 febbraio 1995 riceve alla memoria la medaglia di «Giusto tra le Nazioni». Il 26 aprile 2014 è dichiarato beato ad Alba.          

Enrica (Maria Angela) Alfieri (1891-1951) - Nasce a Borgo Vercelli il 23 febbraio 1891, a 20 anni entra tra le Suore della carità di Santa Giovanna Antida e assume il nome Enrica. Inviata a Milano, nella sezione femminile di San Vittore, diventa un punto di riferimento per tutti e vive una testimonianza eroica sotto l’occupazione nazifascista. Si muove come un «angelo» per confortare ebrei e prigionieri politici, reclusi comuni e perseguitati dal regime fascista. Molti suoi protetti ne conservano un ricordo indelebile. Tra essi antifascisti notissimi come il presentatore televisivo Mike Bongiorno e il giornalista e scrittore Indro Montanelli: «Emanava una luce di speranza; accoglieva, illuminava e riscaldava; con l’amore stemperava le rabbie, le prepotenze, le volgarità e ha portato molti alla conversione». A fianco delle vittime della dittatura, stabilisce i contatti con i partigiani, passa informazioni e messaggi, tenta di evitare le deportazioni. La scoprono con il bigliettino di una donna ebrea: il 23 settembre 1944 «l’angelo di San Vittore» finisce dietro le sbarre e scampa la fucilazione per l’intervento del cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Alfredo Schuster, che scrive a Mussolini: salvata dalla pena capitale, è internata nel campo di Grumello al Monte (Bergamo). Il 7 maggio 1945 il Comitato di liberazione nazionale, con tutti gli onori, la riaccompagna a San Vittore. Muore il 23 novembre 1951. È beatificata il 26 giugno 2011 in piazza Duomo a Milano.

Analoghi fatti avvengono a Torino dove nell’aiuto agli ebrei rifulgono il cardinale arcivescovo Maurilio Fossati (1876-1965), il segretario mons. Vincenzo Barale (1903-1979), la religiosa sarda suor Giuseppina (Rosina) De Muro (1903-1965), figlia della carità e «angelo delle Nuove», il salesiano don Vittorio Cavasin (1901-1992) direttore del collegio salesiano di Cavaglià. Scrive Tuninetti: «Nei confronti del fascismo Fossati tenne la schiena diritta: non fu mai servile e all'occorrenza protestò contro le prepotenze e violenze fasciste. Il regime volle punirlo arrestando il segretario. La parola d’ordine, lanciata da Pio XII, era quella di aiutare e salvare gli ebrei. Fossati la fece propria, avvalendosi di tutti gli strumenti possibili a cominciare dal segretario Barale».

Mons. Giuseppe Barale rischia la vita. Il 3 agosto 1944 la polizia fascista lo arresta, lo chiude in via Asti e poi nel famigerato braccio tedesco delle «Nuove», infine nel domicilio coatto all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (Milano). Lo salva dal lager il cardinale Schuster, sollecitato da Fossati. Nel 1955 a Milano l'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane gli conferisce la medaglia d'oro: «Segretario dell’arcivescovo di Torino accolse e protesse tutti gli ebrei che durante le persecuzioni si rivolsero a lui per aiuti e consigli. Attraverso inenarrabili pericoli trasse a salvamento, nascondendo o facilitando l'espatrio, singoli e fami­glie. Nemmeno in carcere interruppe la sua attività instancabile, illuminata dalla fede».

Nel febbraio 1946 suor Giuseppina De Muro, supe­riora delle Figlie della carità di  San Salvario, invia una lunga relazione a Fossati sull’attività svolta alle Nuove: «Dopo l’8 settembre 1943 l'opera nostra assunse un carattere di eccezione. La nostra  resistenza all'oppressore, per proteggere i fratelli oppressi, inizia con l'occupazione tedesca del primo braccio delle Nuove: vi gettavano le loro prede parti­colari, di cui erano gelosissimi. Ciò che avveniva là dentro era per noi tutte un cupo e assillante mistero». Il comando germanico chiede alla suora di assumere la cura delle donne antifasciste arrestate. La disciplina è durissima: le recluse sono stipate in celle anguste e fatiscenti, non godono dell'ora d'aria, non possono seguire le funzioni religiose né ricevere pacchi e denaro da casa. Senza curarsi delle minacce delle SS, la suora si mette d'accordo con la Confraternita di San Vincenzo che raccoglie indumenti e generi alimentari che le suore fanno entrare in carcere, anche per la complicità di qualche soldato tedesco.

Molto più bru­tali sono i militi della Brigata fascista che spesso affiancano le SS. La partigiana Anna Rosa Gallesio Girola, membro della Gioventù cattolica femminile, dopo l'8 settembre 1943 organizza un gruppo di donne che distribuisce la stampa clandestina e nasconde i ricercati dai nazifascisti. Una condizione terribile vivono le 140 donne ebree, rinchiuse in attesa di essere depor­tate: le SS avevano rastrellato le bambine e avevano strappato le anziane dai letti delle case di riposo. Con la distribuzione di frutta e medicinali, boccette di zabaione, crema e carne liquida, portano le comunicazioni dei partigiani. Il compito più gravoso è assistere i detenuti destinati alla deportazione: «Quanti nostri figli innocenti vedemmo partire? In gruppi talvolta numerosissimi erano prelevati e avviati al loro brutto destino in tutta segretezza e senza preavviso, di notte o all'alba. Per portare in tempo un conforto a questi infelici occorre vegliare, vigili e silenziose, tutta la notte, molte notti. Le stesse guardie tedesche ormai chiudono un occhio sull'assidua opera nostra; quando però si tratta dei deportati cercano di ingannarci sottraendoli alla nostra vigilanza. Ma per noi non esiste più né sonno, né paura: i poveri figlioli non devono partire senza le nostre cure».                                                                                                                       

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