"Una Chiesa che sa osare"

Intervista all'Arcivescovo di Torino. Il pastore dell'Archidiocesi rilancia l'impegno della comunità, a tutti i livelli, sul fronte delle grandi emergenze sociali

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 "Una Chiesa che sa osare"

Mons. Nosiglia, la Chiesa di Torino si presenta all’inizio del nuovo anno con una serie di impegni importanti, sia sul fronte delle «emergenze» che su quello dell’attività pastorale ordinaria. Il problema della casa e dell’accoglienza delle persone prevale, anche nell’attenzione dell’opinione pubblica, per la sua urgenza e per le condizioni drammatiche in cui tanti cittadini italiani, e molti immigrati stranieri, si ritrovano.

La nostra diocesi sta assumendosi impegni gravosi per far fronte al crescente numero di poveri e al diffuso disagio sociale. C’è il rischio di una implosione del tessuto comunitario che ha sempre rappresentato il valore aggiunto della nostra Chiesa ma anche della nostra società, sostenuta da una tradizione radicata nel Vangelo e della eredità dei Santi Sociali. Chiudersi nell’individualismo è un altro aspetto, e non il meno grave, di questa crisi. Rischiamo di diventare, ciascuno per conto suo, ciechi e sordi, indifferenti alla realtà di cui pure facciamo parte. Abbiamo però tanti grandi e piccoli segnali positivi che ci danno speranza di poter resistere a questa deriva individualistica e ritrovare slancio e vigore nel campo dell’evangelizzazione a partire dai poveri. Penso al progetto di via della Salette per immigrati e rifugiati vero modello di sinergie comunitarie di tanti soggetti coinvolti, insieme alle parrocchie dell’Unità pastorale. Penso all’esperienza forte di San Mauro dove 25 giovani minori sono stati accolti con il coinvolgimento di tante realtà locali sia ecclesiali che civili.

Lei ha annunciato un «monitoraggio», da avviare nell’ambito ecclesiale, ma anche civile, per avere dati certi sulla disponibilità abitativa di strutture attualmente non utilizzate. È un’operazione importante, che non ha precedenti. Quali caratteristiche avrà, quali criteri si seguiranno?

Ogni giorno scopro o mi imbatto in strutture disabitate o che lo saranno presto sia di Istituti religiosi, sia di parrocchie, associazioni ed Enti diocesani. Un tempo queste realtà venivano abbandonate, oppure affittate o vendute per avere un profitto che serviva ai bisogni pastorali e missionari. Credo che oggi la sfida sia quella di impegnare tali strutture per accogliere o comunque sostenere persone, famiglie, immigrati e rifugiati e poveri nelle loro urgenti necessità. Del resto tante di queste realtà sono frutto di donazioni di benefattori che hanno voluto destinarle per i poveri e gli ultimi. Si tratta dunque di una restituzione doverosa. È un’operazione complessa, da condurre con grande rispetto e serietà. Occorre verificare bene quali possono essere le unità immobiliari disponibili e dove si trovano, in che stato sono, cosa comporta la loro ristrutturazione e quali soggetti possono usufruirne con frutto tenendo conto delle loro condizioni di vita (altro sono le famiglie, o donne con minori, senza dimora, rifugiati o immigrati…). Mi auguro che tale operazione sia fatta anche riguardo alle tante strutture disabitate, di proprietà delle istituzioni delle nostre Città e Paesi.

Ancora in tema di casa, il fondo ricavato dal dono di Papa Francesco per l’Ostensione 2015 è stato usato per intero o ci sono ancora progetti da attuare? Finora l’indicazione di coinvolgere negli impegni di accoglienza le parrocchie, le famiglie, il territorio si è rivelata «vincente», sia per la quantità di risposte sia per il metodo, perché si evita la creazione di ghetti e tensioni con i residenti. Come si proseguirà con questa strada? Il settore pubblico sarà in grado di intervenire con modalità analoghe?

Il fondo riguarda la casa e il lavoro e sta procedendo bene, offrendo un supporto fondamentale al già impegnativo compito della Caritas, di Migrantes e della Fondazione Operti. La nostra scelta è sempre stata quella di non creare dei ghetti (tipo il Moi, tanto per intenderci), dove un numero grande di persone vivono insieme stipati magari in uno stanzone comune (compresi gli scantinati) o anche in camere di appartamenti e alberghi o residence, senza che ci sia alcun progetto di inserimento nel territorio che li ospita e senza una concreta prospettiva di una graduale inclusione sociale mediante il lavoro e una propria abitazione. Chiedo a tutte le nostre parrocchie e comunità religiose e laicali di aprire la porta ad alcune di queste persone o famiglie permettendo loro di essere conosciuti e incontrati dalla gente della comunità. Questa capillarità di presenze aiuta l’integrazione, scaccia il timore, cancella le diffidenza e dà vita a relazioni più umane e dignitose. Non so se le istituzioni pubbliche riusciranno a percorrere la stessa strada perché a volte prevale la necessità di rispondere alle emergenze, con soluzioni che vengono dichiarate provvisorie. Sappiamo ormai bene però che nel nostro Paese non c’è niente di più stabile e definitivo del provvisorio.

La recente II assemblea dell’Agorà ha messo a fuoco la preoccupazione, comune a tutti (istituzioni, fondazioni, sindacato, imprenditori), intorno al problema del lavoro, che è strettamente connesso alla realtà dei giovani. In più occasioni Lei ha sottolineato che la formazione e l’«educazione civica» sono al cuore di qualunque progetto di nuovo Welfare. Quali riflessioni sono possibili in questa direzione? Quali iniziative concrete?

Educazione e formazione a tutte le età e in modo continuo rappresentano il volano indispensabile per affrontare il problema non solo del lavoro, ma di ogni altro importante aspetto della vita personale e sociale. Papa Francesco a Torino lo scorso anno ci ha detto che è l’investimento più efficace e produttivo, oltre che necessario. Per cui il sostegno alle famiglie per riconoscere e dare loro il diritto di educare i propri figli con il supporto della scuola e della cultura (che vale quanto il pane da mangiare), delle parrocchie e associazioni che operano nel campo giovanile dovrebbe essere uno dei primi impegni delle istituzioni come lo è della Chiesa. Mi ha stupito, ma anche rallegrato, il fatto che nell’incontro con i 25 ragazzi rifugiati, a San Mauro, alla mia domanda: «Che cosa mi chiedete e avete bisogno?», loro hanno risposto: «Ci aiuti ad andare a scuola». Anche i genitori rom nel campo di via Germagnano mi hanno chiesto di aiutare i loro bambini e ragazzi ad andare a scuola favorendo il passaggio di uno scuolabus e anche la realizzazione di un doposcuola nel campo. Un’iniziativa concreta poi che abbiamo indicato nell’Agorà è quella di aiutare le nuove generazioni nell’orientamento in entrata e in uscita dalla scuola per puntare su una professione consona alle qualità di ciascuno e che aiuti a entrare nel mondo del lavoro. E ogni lavoro è ugualmente nobile e degno di essere scelto, perché utile non solo a se stessi, ma anche agli altri.

L’attualità sembra spingere anche la Chiesa a ragionare e operare in termini di «emergenza». Ma c’è invece una realtà ordinaria, quotidiana, che rimane il riferimento centrale e che ha bisogno di essere sostenuta, seguita, valorizzata.

Quando la casa brucia bisogna spegnere il fuoco e non si può starsene con le mani in mano pensando solo a piani di lungo periodo. Ma questo non significa che non si debba e possa dare vita a una progettualità che pur comprendendo anche la risposta alle emergenze sia orientata a promuovere ogni persona a camminare con le sue gambe. È ancora il Papa che ci ha ricordato: la Chiesa non fa assistenzialismo, ma predica il Vangelo che promuove tutto l’uomo e lo rende sempre più autonomo e responsabile del proprio futuro. La pastorale ordinaria delle nostre comunità rappresenta dunque la condizione fondamentale per affrontare anche le emergenze senza lasciarsene travolgere. La perseveranza nell’impegno della formazione, comunione e missione, garantisce l’efficacia della evangelizzazione intesa come promozione integrale di ogni persona, famiglia e società.

In questa prospettiva si colloca anche il grande tema del «riassetto» della diocesi. Le Unità pastorali e le comunità sono invitate, lungo quest’anno, a proporre riflessioni e progetti, ma soprattutto a «convertirsi» alla Chiesa missionaria che Francesco chiede. Quali passi concreti si proporranno per incoraggiare questo cammino?

Il primo passo è quello di superare il clericalismo che incentra tutta la pastorale attorno alla figura del prete; o quello di chiudersi nel proprio gruppo o ambito ecclesiale di riferimento. Pensiamo poi alla separatezza tra giovani e adulti in parrocchia… per esempio tra animatori degli oratori e catechisti, che hanno a che fare poi di fatto con gli stessi ragazzi, o tra un’associazione o gruppo ecclesiale e gli altri, tra gruppi e comunità parrocchiale, tra parrocchie vicine della stessa Unità pastorale o dello stesso territorio cittadino… Una Chiesa in uscita è fatta invece di realtà che si aprono a tutte le altre; si incontrano per programmare insieme la pastorale e collaborare poi insieme per attuarla. E la motivazione determinante per tutti è la stessa: la spinta missionaria verso la vita concreta della gente: nel mondo della scuola, della famiglia, del lavoro e della stessa politica, della piazza e persino del mercato, dell’ospedale e case di riposo, del tempo libero e dello sport… Se questa uscita la facciamo tutti insieme allora diventa più facile e incide con più frutto nel vissuto concreto delle persone e della società. Del resto Gesù stava poco in sinagoga e incontrava la gente per strada, nelle case e nelle piazze, e andava a cercarla senza attendere di essere cercato.

Abitare, educare, trasfigurare… è evidente che l’impegno della Chiesa torinese si ricompone intorno alle «vie» indicate da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium e riprese nel Convegno della Chiesa italiana a Firenze. Come si potrà, nel nuovo anno, essere segno di speranza autentica per la nostra città e il nostro Paese?

La nostra speranza è Cristo e dunque più ci rivestiamo di lui e ci lasciamo convertire dal suo Vangelo e più saremo credibili ed efficaci nella nostra evangelizzazione. Tra la preghiera e i sacramenti e la vita di ogni giorno con i suoi problemi non c’è separatezza ma complementarietà. Questa è la sfida oggi più grande, che fa dire a Papa Francesco nella Evangelii Gaudium un «no» forte e chiaro a una Chiesa e a un cristiano che perseguono la via di uno spiritualismo disincarnato dal vissuto della gente e dall’altro a un attivismo che, sotto la scusa dell’impegno sociale, dimentica o sottace che i frutti dolci e belli di un albero dipendono dalle sue radici. La radice dell’amore che dà anche la vita per il prossimo non sta nel nostro darci da fare, programmare, operare: ma dipende dalla cura dell’amore di Dio che ci è stato donato, unica linfa vitale che ci permette di portare frutti di bene per tutti. Nel Te Deum di fine anno ho ricordato come nel secolo scorso i nostri Santi hanno compiuto opere meravigliose venendo incontro a povertà spirituali e sociali di ogni genere, partendo dalla loro fiducia incrollabile nella Provvidenza di Dio. Oggi noi viviamo sulla loro scia e alla loro ombra, ma non sappiamo affrontare le sfide del nostro tempo come opportunità che il Signore ci offre, per farci uscire dal torpore di un tran tran quotidiano, vissuto senza slancio creativo e volontà e limitandoci a rispondere alle emergenze: siamo una Chiesa (e una società) che viaggia col freno a mano tirato, per cui non riuscirà mai a prendere velocità come potrebbe e dovrebbe.Dobbiamo avere il coraggio di osare di più perché coscienti che la nostra Chiesa e il suo territorio hanno enormi potenzialità spirituali e sociali da mettere in campo. Questo è l’augurio che rivolgo a me stesso e a tutti i fedeli e cittadini della Diocesi per questo anno nuovo.

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