Preti da galera, uomini di speranza

Don Alfredo Stucchi, da 20 anni è cappellano della casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Lo abbiamo incontrato a margine dell’apertura della quinta Porta Santa della diocesi nel penitenziario torinese

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Preti da galera, uomini di speranza

Don Alfredo, in che modo avete presentato il Giubileo della Misericordia ai reclusi e come si sono preparati alla celebrazione dell’apertura della Porta Santa nella cappella del carcere?

Ai numerosi detenuti e detenute che frequentano la Messa domenicale abbiamo distribuito un libretto che spiega semplicemente che un anno dedicato alla misericordia è l’occasione per convincersi che Dio ci ama sempre, nonostante il limite del nostro peccate e che in particolare – come ci dice il Vangelo  e come ha sottolineato l’Arcivescovo – Gesù si indentifica con l’umanità più sofferente e quindi anche con chi è in carcere. In tutte le Messe poi, durante l’omelia, noi  cappellani abbiamo cercato di spiegare il senso del Giubileo: è stata una vera e propria catechesi e molti detenuti si sono preparati all’apertura della Porta Santa accostandosi ai sacramenti della confessione e dell’Eucarestia.  Domenica scorsa, ad esempio il Vangelo dove si racconta la vicenda di Zaccheo, ricco pubblicano odiato dal popolo perché abusava del suo potere di esattore, mi ha dato lo spunto per spiegare che sempre si può cambiare vita: si può smettere di rubare e dare i miei beni a poveri, come Zaccheo così come accade alla Maddalena, a  Paolo a Damasco…

Durante l’apertura della Porta Santa molti detenuti erano visibilmente commossi e hanno chiesto all’Arcivescovo di tornare…

È stato un momento molto particolare perché i detenuti si sono sentiti parte della comunità diocesana che celebra insieme al suo Vescovo: è molto importante per chi sta ai margini della società come chi vive in carcere sentirsi   «dentro», aiuta a manifestare il desiderio di cambiamento che c’è in ognuno di noi: la Porta Santa aiuta a chi sta scontando una pena ad interrogarsi sulla propria vita, su chi sono, su dove sto andando.

Molto significativa inoltre è stata la sensibilizzazione che attraverso il nostro diacono Vincenzo Prota e i volontari è stata fatta nelle parrocchie della diocesi con la raccolta di materiale per l’igiene personale per i numerosi detenuti che non hanno famiglia e sono privi di mezzi: un segno di vicinanza che è stato molto apprezzato.

Lei spesso definisce carcere una parrocchia. Che tipo di comunità è la sua?

Innanzi tutto quando pensiamo al carcere dobbiamo considerare oltre ai 1300 detenuti anche le loro famiglie,  il personale, gli agenti i volontari: sono circa 5 mila le persone che gravitano attorno al «Lorusso e Cutugno». Noi siamo cappellani di tutti, di quella madre anziana che aspetta per ore un colloquio con i figlio, dei bambini figli dei reclusi, delle madri che hanno dentro i figli tossicodipendenti. È un microcosmo dove tutte le problematiche delle nostre parrocchie sono concentrate dietro le sbarre.

E qual è la difficoltà maggiore dell’essere parroco di un carcere?

Far capire ai detenuti che non esiste una situazione così disperata da cui non si ci può rialzare, essere uomini di speranza, far capire che il tempo della detenzione non è la fine ma può essere l’inizio di una nuova vita a patto che si passi la Porta della conversione. Ma per essere uomini di speranza, occorre essere convinti e poi convincere chi ti sta accanto che la speranza non è un sentimento umano, viene da Dio che si indentifica con chi è carcerato, è una sua iniziativa. È Gesù che dice al ladrone che chiede aiuto sul calvario «Oggi sarai in paradiso con me». Se sei in grado di capire che la speranza proviene dall’iniziativa di Dio capita che un detenuto ti dica: «Se non fossi entrato qui dentro non sarei riuscito a cambiare vita». E spesso succede. 

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