La Chiesa di Torino già in ''uscita'' si fa accogliente

un complessivo ripensamento pastorale che vuole anche dare risposte adeguate alle domande dei territori meno curati. Novità di metodo importante: saranno le comunità locali, che conoscono meglio le realtà di base, a indicare quali accorpamenti tra parrocchie sono possibili e opportuni. L'Assemblea del clero diocesano e il riassetto territoriale

Parole chiave: Torino (730), chiesa (665), papa (648), diocesi (138)
La Chiesa di Torino già in ''uscita'' si fa accogliente

Un cammino ampio e articolato di rinnovamento, con una prospettiva chiara: privilegiare la dimensione “missionaria”, l’annuncio gioioso del Vangelo - come chiede papa Francesco nella Evangelii Gaudium. L’assemblea del clero della diocesi di Torino, conclusa ieri (23 settembre) ha compiuto un altro passo nella direzione di un ripensamento complessivo della pastorale nella sua organizzazione ma, più e prima ancora, nel suo modo di pensarsi e di mettersi a servizio della gente. Dunque non “meno parrocchie e meno Messe”, come ha titolato qualche giornale: ma un insieme di presenze pastorali dove l’accento è posto sulla comunione ecclesiale e sull’“accompagnamento” alla vita delle persone e delle comunità, adattando dove necessario le strutture alle condizioni mutate in questi ultimi anni. Attualmente la diocesi subalpina è articolata in 359 parrocchie, con situazioni di grande disparità.

La gran parte della popolazione è concentrata nella metropoli e nell’hinterland; ci sono poi alcuni grandi centri agricoli e vaste zone di montagna scarsamente popolate. Così accade che in città alcune parrocchie “servono” fino a 25mila abitanti, mentre in montagna piccoli paesi radunano alcune decine di persone… Già ora, nei centri minori, ci sono sacerdoti responsabili come parroci di 3-4 parrocchie; e sono già state avviate numerose sperimentazioni, nell’ambito delle Unità pastorali: i preti di parrocchie vicine costituiscono una sola comunità sacerdotale, organizzando poi i servizi sul territorio in modo più omogeneo e coordinato.

Ma ora il cammino di rinnovamento ha bisogno di un ulteriore salto di qualità: e la motivazione non è “organizzativa” ma di contenuto: la Chiesa che papa Francesco indica e auspica è una Chiesa “in uscita”, capace di muoversi ed essere presente sul territorio con una precisa spinta missionaria, in vista non di una pastorale “di conservazione” ma motivata dalla necessità di annunciare, con gioia, il Vangelo.A confortare il cammino avviato dalla diocesi torinese, martedì scorso, il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, invitato a proporre una lettura attualizzata dalla “Evangelii Gaudium” del Papa. Il quadro tracciato dal segretario Cei è chiaro: il cristianesimo “sociologico”, in cui la gente vive in un contesto “naturalmente” cristiano, è al tramonto; gli stili di vita sono diventati fortemente individualistici; la Chiesa spesso è paralizzata nella tentazione della nostalgia (quando non del risentimento). Per questo è necessario e improrogabile un rinnovamento ecclesiale profondo. Anche perché, ha osservato mons. Galantino, non sono certo i linguaggi e le occasioni che mancano alla Chiesa: proprio Torino, nelle settimane scorse, ha “anticipato” l’appello del Papa, chiedendo che i profughi vengano ospitati non solo nelle parrocchie o negli istituti ma direttamente nelle famiglie; e la risposta che i torinesi hanno dato è stata entusiasmante… A questo proposito l’arcivescovo Nosiglia ha notato che il “successo” nella risposta di accoglienza si basa anche sul richiamo a una responsabilità diretta della gente; e che accogliere piccoli gruppi di profughi in piccole comunità sul territorio contribuisce a evitare l’“effetto ghetto” dei centri per immigrati.

Una mentalità di accoglienza aperta, di accompagnamento e partecipazione alla vita della gente: questo è il cuore del rinnovamento che si vorrebbe proseguire in diocesi di Torino. Il cammino è già iniziato due anni fa, quando l’assemblea del clero e poi il Consiglio presbiterale prese l’impegno di esaminare in modo approfondito i problemi connessi della diminuzione dei preti disponibili, del calo di vocazioni, della necessità di qualificare la presenza sul territorio. Ora si procede a una tappa successiva, cominciando ad attuare la riorganizzazione delle presenze nel territorio. Con una novità di metodo importante: saranno le comunità locali, che conoscono meglio le realtà di base, a indicare quali accorpamenti sono possibili e opportuni.La parrocchia – ha ribadito mons. Nosiglia - rimane il “pilastro centrale” di qualunque costruzione pastorale, perché è il luogo della comunità e il “motore” di ogni attività e programmazione. Intorno alla parrocchia, e in funzione delle sue necessità, si vuole ridisegnare il contesto delle comunità di preti (già ora molte parrocchie non hanno più il parroco residente: si tratterà di studiare le forme migliori di vita comune e di responsabilità articolate).

E nella parrocchia, comunità di comunità, andranno fortemente rilanciate le responsabilità e la partecipazione dei laici. Già ora la diocesi ha avviato percorsi specifici di formazione per gli operatori pastorali, perché ci sia una preparazione adeguata nei vati settori della catechesi, della liturgia, della carità, in cui sono chiamati a operare. È in questo scenario che si potrà pensare all’accorpamento di alcune delle parrocchie attuali, per rendere più consistenti i numeri di preti e laici impegnati, e più efficaci le strategie. Quanto alla “soppressione” di parrocchie, il tema dovrebbe riguardare solo una decina di quelle più piccole, di fatto già oggi accorpate in altre realtà pastorali.La pastorale del Battesimo e la pastorale giovanile sono i due ambiti in cui è stato già avviato un lavoro comune al di là dei confini delle singole parrocchie attuali.

Fonte: Sir
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