Caro don Franco Peradotto, cinque anni dalla morte

Nel quinto anniversario della morte di mons. Franco Peradotto, compianto Vicario generale della diocesi di Torino e Direttore del settimanale diocesano La Voce del Popolo, nel santuario della Consolata di cui fu Rettore è stata celebrata una messa di suffragio domenica 1 novembre. Sul numero in uscita lo stesso giorno la Voce del Popolo dedica a Peradotto una pagina di testimonianze. Qui lo ricorda don Luigi Ciotti

Parole chiave: peradotto (3), ciotti (8), voce del popolo (6)
Caro don Franco Peradotto, cinque anni dalla morte

Sono ormai cinque anni che Franco se ne è andato, ma la sua presenza è più che mai viva dentro di me.  Mi è stato maestro. Mi ha insegnato la libertà, la capacità di conciliare la dottrina e il primato della coscienza, la saldezza della fede con i dubbi che accompagnano la ricerca vera, l’annuncio del Regno con l’impegno a costruire giustizia a partire da questo mondo. Mi è stato amico. Me lo sono sempre trovato accanto nei momenti più difficili, quando ci sentiamo piccoli e impotenti, e la speranza rinasce solo con l’impegno e la preghiera, con l’abbandonarci al Padreterno e alla Sua Parola scomoda ma proprio perciò salvifica. Il Gruppo Abele gli deve molto, e dunque molto gli devono i poveri e le persone fragili che in questi cinquant’anni hanno colto nel Gruppo una speranza e un’opportunità. 
Ha incarnato una Chiesa in cammino, esposta alle domande della strada e ai cambiamenti della storia, preoccupata non tanto di “portare dentro” quanto di andare incontro. Una Chiesa umile, irrequieta, essenziale, mai giudicante, comprensiva. Gli incontri di spiritualità che per anni, ogni mercoledì sera, abbiamo organizzato alla Consolata – temi ardui che uscivano dagli schemi introdotti da testimonianze di palpitante umanità – sono stati grazie all’acume di Franco, alla sua visione d’insieme, capacità di sintesi e divulgazione (è stato un giornalista di prim’ordine, non dimentichiamolo) percorsi di sapere, di fede e di vita per credenti e non credenti. Non aveva timore, Franco, di inoltrarsi in quelle zone estreme dove il volto di Cristo si riflette nei bisogni e nelle speranze delle persone, nella nudità della condizione umana, nel nostro desiderio di trovare braccia che ci abbracciano, mani che ci stringono, sguardi che non solo vedono ma riconoscono. E mi chiedo, lui che è stato protagonista della stagione del Concilio Vaticano II, di una Chiesa che salda la carità e i diritti, e per la prima volta parla della povertà come di una questione “politica” – la Chiesa di figure luminose come Martini e Pellegrino – mi chiedo che reazione avrebbe oggi Franco alle parole e ai gesti di papa Francesco. Ne gioirebbe, certo. Ma sarebbe anche il primo a sottolineare, da uomo concreto che era, che quelle parole e quei gesti dobbiamo sentirli come spine nel fianco, sproni a fare di più e di meglio, perché come cristiani dobbiamo guardare al Cielo senza dimenticarci delle responsabilità di questa terra.  

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