Come Domenico Agasso sr raccontò la visita Paolo VI a Fatima

Un grande giornalista sulle orme di Giovanni Battista Montini nel 1967

Parole chiave: papa (648), montini (4), agasso (2), chiesa (665)
Come Domenico Agasso sr raccontò la visita Paolo VI a Fatima

Il decano dei giornalisti subalpini, il 96enne Domenico Agasso senior, classe 1921, nasce a San Bernardo di Carmagnola (Torino), dove tuttora risiede. Comincia il lavoro giornalistico nel 1951 al quotidiano torinese, «Il Popolo Nuovo»: giornalista professionista dal 1° ottobre 1952. Nel 1958 Amintore Fanfani, segretario della Dc, chiude «Il Popolo Nuovo» e salva la «Gazzetta del Popolo». Agasso nel 1960 passa al settimanale mondadoriano «Epoca» a Milano. Dal 1968 al 1971 è caporedattore di «Famiglia cristiana», e poi direttore dei settimanali «Epoca» e «il nostro tempo». Nel 1978 Mondadori pubblica la sua «Storia d’Italia» in otto volumi. È autore di opere biografiche come «Mi chiamerò Giovanni» su Giovanni XXIII (Mondadori), «Giacomo Alberione, editore per Dio» (San Paolo) e «Paolo VI. Le chiavi pesanti». Agasso accompagna Papa Montini nei primi viaggi: 4-6 gennaio 1964 in Terra Santa; 2-5 dicembre 1964 in India per concludere il Congresso Eucaristico internazionale di Bombay; 4-5 ottobre 1965 a New York parla all'Assemblea generale dell'Onu; il 13 maggio 1967 a Fatima nel 50° delle apparizioni. «Paolo VI. Le chiavi pesanti» (foto di Pepi Merisio, Libreria della famiglia-San Paolo, 1979) pubblichiamo la bellissima cronaca di Agasso senior (pga)

 

«Uomini, siate uomini! Uomini, siate buoni, siate saggi, siate aperti alla considerazione del bene totale del mondo. Uomini, siate magnanimi, pensate alla gravità e alla grandezza di quest'ora, che può essere decisiva per la storia della presente e della futura ge­nerazione».

Un altro esempio di linguaggio fuori ordinanza. Un altro segno della fiducia di Paolo VI nella capacità di tutti di «essere uomini». Quest'invito veniva dal santuario mariano portoghese di Fatima, dove il Papa aveva fatto il pellegrinaggio di un giorno, il 13 maggio 1967. Fatima è qualcosa di molto discusso nel mondo cattolico. Sulle apparizioni della Madonna a tre ragazzi pastori, nel 1917, non tutti sono d'accordo. Circola poi tutta una letteratura su presunte rivela­zioni della Vergine ai tre ragazzi, con profezie di sconvolgimenti universali e di prodigiosi ritorni alla fede: la «conversione della Russia», per esempio.

Inoltre Fatima si trova in Portogallo, dove allora durava la ditta­tura del professor Salazar (Antonio Oliveira de Salaza è stato un brutale dittatore del Portogallo, n.d.r.), cattolico eminente munito di una polizia politica di ferro, colonialista irremovibile, adoratore di Cristo, ma senza sacrificargli la ragion di Stato. Tant'è vero che per ragioni appunto «di Stato» fece addirittura censurare in Portogallo la «Popu­lorum progressio» (l’enciclica di Paolo VI del 26 marzo 1967: «Il progresso nuovo nome della pace», n.d.r). Con la Santa Sede, poi, egli era freddo da quando il Papa era andato in India, a causa della questione di Goa (già possedimento portoghese nel 1961 fu occupata dall’India, n.d.r.).

C'erano dunque molte ragioni in contrario a un'andata del Papa in Portogallo, e poi a quel santuario, in quell'occasione: il cinquan­tenario delle apparizioni. Le ragioni a favore potevano essere un gesto di pace verso il Portogallo, sul piano politico. Su quello religio­so, il viaggio portava il sigillo mariano che già aveva segnato numero­se sue iniziative. Tutti gesti, e poi quel viaggio, poco ecumenici, vista la posizione delle Chiese riformate sulla questione mariana. Infatti, egli stesso ricordò quelle divergenze, parlando in Portogallo a un gruppo di cristiani separati: «Nello stato delle attuali divisioni cri­stiane non vi è possibile, fratelli, condividere tutte le nostre opinioni su Maria».

Tuttavia, quando l'aereo della Tap (la compagnia di bandiera portoghese, n. d. r.) che portava il Papa discese a sorvolare da vicino il santuario di Fatima, si poté scoprire, impres­sionante, un altro motivo della sua decisione, forse quello capitale: sull'enorme spianata c'era una folla che alcuni stimarono vicina al milione di persone 8provenivano da Portogallo, dalla Spagna, dal Brasile, c’era anche un gruppo di vietnamiti, n.d.r.). Quel giorno pioveva, la gente era lì da prima che il papa lasciasse Fiumicino: dall'alto si vide la massa scura degli ombrelli cedere il posto a una vasta e mobile chiazza bianca, centi­naia di migliaia di fazzoletti agitati verso l'aereo. Poi si riaprirono gli ombrelli e per altre due ore la folla attese che Paolo VI comparisse in automobile, proveniente dall'aeroporto di Montereal.

Era andato a Fatima anche per loro, a dividere quella festa. Prima di allora, nessun Paese cattolico aveva ricevuto una visita del papa: probabilmente egli aveva voluto scegliere ora uno dei più poveri e mortificati tra quelli che gli era consentito di raggiungere. Certo, lo spettacolo di Paolo VI avanzante in quel mare umano - festoso, ma con toni e atteggiamenti di umile decoro - faceva dimenticare il professor Salazar e i rappresentanti del generale Franco nelle loro uniformi, seduti presso l'altare. Era un contatto senza intermediari, il regime non c'entrava più.

Intorno al Papa si vedevano i vescovi portoghesi: ma non tutti. Qualcuno, spiacente al governo, non aveva potuto presentarsi. Paolo VI, in quei momenti, dovette certo pensare alla scena avvenuta in qualche ufficio di Lisbona alcuni mesi prima: cattolicissimi gover­nanti esaminavano il testo della sua enciclica sullo sviluppo dei po­poli con la matita rossa e blu di arcigni professori; e stabilivano, essi, quali parole del Sommo Pontefice fosse lecito lasciar leggere nelle chiese dell'intero Portogallo, e quali no.

A chi criticava quel viaggio come un sorprendente passo indietro rispetto alla Populorum progressio, il papa rispose sottolineando il carattere specifico del gesto, che era di invocazione per la pace: fu su quell'argomento, infatti, che la sua omelia nella messa si sollevò all'alto invito rivolto universalmente agli "uomini". Nella sua visione, però, l'opera della Chiesa per la pace, e in generale il suo servizio al mondo, dipendeva rigorosamente dalla compattezza delle sue file e dalle certezze dottrinale e disciplinare. Perciò insistette anche a Fatima: «Quale danno sarebbe se un'interpretazione arbitraria e non autorizzata dal magistero della Chiesa» facesse del risveglio concilia­re «un'inquietudine dissolvitrice della sua tradizionale e costituzio­nale compagine, se sostituisse alla teologia dei veri e grandi maestri ideologie nuove e particolari».

Nell'omelia un breve cenno fu riservato alle apparizioni di cui si celebrava il cinquantenario. Diversamente dalla tradizione, la statua della Vergine non venne incoronata. Invece di diademi d'oro, rice­vette un omaggio di fiori. Era presente anche suor Lucia, superstite dei tre pastorelli del 1917, larga faccia campagnola, uscita dal suo convento carmelitano. Poco lontano da lei, in un gruppo di ex regnanti, stava Umberto di Savoia venuto da Cascais. Dopo il rito, Paolo VI s'incontrò con lui nel palazzo annesso al santuario: si erano visti l'ultima volta nel giugno del 1946, quando Umberto andò al Vaticano per la visita di congedo a Pio XII. Prima ancora, il sostituto Montini era stato segreto tramite delle iniziative dalla moglie di Umberto, Maria José, per trattare con inglesi e americani un'uscita dell'Italia dalla seconda guerra mondiale.

Tornato a Roma la sera dello stesso 13 maggio, Paolo VI trovò ad accoglierlo all'aeroporto Aldo Moro, presidente del Consiglio. In piazza San Pietro, poi, lo attendeva una fiaccolata di alcune migliaia di fedeli, al suono delle campane. Era ormai vicina la mezzanotte quando il papa parlò dalla finestra del terzo piano: «Vi porto il saluto e la benedizione della Madonna. Abbiamo domandato alla Madonna la pace e abbiamo quasi ricevuto la risposta, che possiamo trovarla, se saremo buoni, religiosi, se ameremo i nostri fratelli. Con l'aiuto della Madonna possiamo creare la buona società cristiana. Vi ringrazio di cuore e vi benedico».

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