Colombia, il primo passo per una pace giusta

Il Papa ha visitato la Colombia nei giorni della pacificazione nazionale. Dal Sud America ha lanciato parole che stanno facendo il giro del mondo, un appello universale a lavorare per la pace, gettare ponti, compiere sempre «il primo passo» per la riconciliazione. Parole rivolte anche alla Chiesa

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Colombia, il primo passo per una pace giusta

Papa Francesco, «costruttore di ponti» («pontifex»), continua nella «diplomazia della pace», come ha fatto nelle quattro tappe - Bogotá, Villavicencio, Medellin, Cartagena - del viaggio in Colombia (6-10 settembre) che aveva per tema «Demos el primer paso. Facciamo il primo passo», e auspica che il Venezuela «avvii il confronto e ritrovi stabilità con il dialogo», ma il presidente Nicolás Maduro non vuole saperne di cedere il potere. Oltre ai temi religiosi ed ecclesiali, il Pontefice ha affrontato temi di cronaca, ricordando le vittime del terremoto in Messico e dell’uragano Irma sui Caraibi. I suoi messaggi sono indirizzati a tutti.

L’entusiasmo di milioni di persone - Nella capitale Bogotá, «2.600 metri più vicina alle stelle», invita a «rifuggire da ogni tentazione di vendetta, perché molto è il tempo passato nell’odio e nella vendetta». Una folla immensa, nonostante la pioggia, partecipa alla Messa nel parco Simon Bolivar: «In questa amata città, in questo bellissimo Paese, come in altre parti del mondo, fitte tenebre minacciano e distruggono la vita: ingiustizia e inequità sociale; interessi personali o di gruppo che consumano in modo egoista e sfrenato ciò che è destinato al benessere di tutti; il mancato rispetto della vita umana che miete quotidianamente l'esistenza di tanti innocenti, il cui sangue grida al cielo; la sete di vendetta e di odio che macchia di sangue umano le mani di coloro che si fanno giustizia da soli; coloro che si rendono insensibili di fronte al dolore di tante vittime».

La riconciliazione con Dio, con i colombiani, con il Creato - A Villavicencio, alle porte dell’Amazzonia, beatifica mons. Jesús Emilio Jaramillo Monsalve, vescovo di Arauca, ucciso in odio alla fede nel 1989 dai guerriglieri, e il sacerdote Pedro María Ramírez Ramos, assassinato nel 1948 nelle violenze tra liberali e conservatori: «Tocca a noi dire sì alla riconciliazione anche con la natura. Su di essa abbiamo scatenato le nostre passioni possessive, la nostra ansia di dominio». La violenza che c’è nel cuore «ferito dal peccato» si manifesta anche nelle malattie del suolo, dell’acqua, dell’aria e degli esseri viventi. I due martiri «sono espressione di un popolo che vuole uscire dal pantano della violenza e del rancore».

Il Crocifisso senza braccia e senza gambe - Ai piedi del Crocifisso di Bojayà, dove il 2 maggio 2002 ci fu il massacro di decine di persone rifugiate nella chiesa, si svolge il momento culminante del viaggio: la celebrazione liturgica di riconciliazione: vittime della violenza, militari e agenti di polizia, ex guerriglieri: tutti portano ferite che stentano a cicatrizzarsi perché «ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità. L’odio non ha l’ultima parola. L’amore è più forte della morte e della violenza». Risuonano storie di sofferenza e violenza, di coraggio e speranza, di fiducia nel futuro: «Colombia, apri il tuo cuore di popolo di Dio e lasciati riconciliare. Non temete la verità, né la giustizia; chiedete e offrite il perdono; non fate resistenza alla riconciliazione; ritrovate i fratelli; superate le inimicizie. È ora di sanare le ferite, di gettare ponti, di limare le differenze, di spegnere gli odi, di rinunciare alle vendette».

Il peccato commesso da uno, coinvolge tutti - Un anno fa, il 27 settembre 2016, a Cartagena de Indias fu firmato l’accordo tra governo e guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Ora, deposte le armi, le Farc puntano a diventare un partito per vincere le elezioni. Il Papa invita a rinunciare «alla pretesa di essere perdonati senza perdonare, di essere amati senza amare. Solo se sciogliamo i nodi della violenza, districheremo la complessa matassa degli scontri» perché «un peccato commesso da uno, ci interpella tutti e coinvolge tutti». Il Papa latinoamericano offre una lezione di geopolitica: poiché la pace ha bisogno di un’anima, «non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà». Il soggetto storico di tali processi «è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo». Le ferite della storia «esigono istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Quante volte si normalizzano processi di violenza e di esclusione sociale senza che la nostra voce si alzi, né le nostre mani accusino profeticamente. Più dell’Onu, più dei politici e dei tecnici, un processo di pace andrà avanti se lo prende il popolo».

Dio converta i cuori dei sicari della droga - Papa Francesco condanna ripetutamente la piaga del narcotraffico: «Medellin mi ricorda le vite dei giovani distrutte dai sicari della droga»; chiede di «porre fine al narcotraffico che semina morte e distruzione, stronca tante speranze e distrugge tante famiglie. La droga è un male che colpisce la dignità della persona umana e spezza progressivamente l’immagine che il Creatore ha plasmato in noi. Condanno con fermezza coloro che hanno posto fine a tante vite umane, l’azione di uomini senza scrupoli. Non si può giocare con la vita dei nostri fratelli, né manipolare la loro dignità». Manifesta vicinanza a coloro che soffrono per il terremoto (uno dei più forti degli ultimi cent’anni) che ha colpito il Messico: «Seguo da vicino lo sviluppo dell’uragano Irma che colpisce i Caraibi e la Florida».

La Chiesa non è una dogana, le sue porte sono aperte - Nel 1968 a Medellin, in Colombia, si svolse la seconda Conferenza dell'episcopato latino-americano (28 agosto-6 settembre). Aperta da Paolo VI, sancì l’«opzione preferenziale per i poveri». Francesco ricorda bene questa Conferenza quando, al Comitato direttivo del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), ribadisce: «La Chiesa non sta in America Latina come se avesse le valigie in mano, pronta a partire dopo averla saccheggiata, come hanno fatto tanti nel corso del tempo. Quanti operano così guardano con senso di superiorità e disprezzo il suo volto meticcio; pretendono di colonizzare la sua anima». Stigmatizza «ideologizzazione del Vangelo, funzionalismo ecclesiale, clericalismo. La Chiesa rispetta il multiforme volto del continente, perché non è una dogana ma ha le porte aperte».

«L’uomo uno stupido e testardo che non vede» - Sull’aereo del ritorno con i giornalisti ricorre a una frase dell’Antico Testamento - «Chi ama la correzione ama la scienza, chi odia il rimprovero è uno stupido» (Proverbi 12,1) - per parlare di uragani e alluvioni: «Mi viene in mente una frase dell’Antico Testamento: l’uomo è uno stupido, un testardo che non vede. È l’unico animale che cade due volte nella stessa buca per superbia e sufficienza. E poi c’è il ‘dio tasca’. Tante decisioni dipendono dai soldi». Spiega: «Siamo superbi, non vogliamo vedere. Ma gli scienziati sono chiarissimi sull’influsso umano nei cambiamenti climatici. Chi nega questo deve chiederlo agli scienziati: loro parlano chiarissimo, sono precisi. Il cambiamento climatico si vede nei suoi effetti, e tutti noi abbiamo una responsabilità morale nel prendere le decisioni. Credo sia una cosa molto seria. Ciascuno ha la sua responsabilità morale e i politici hanno la loro. Che uno chieda agli scienziati e poi decida. La storia giudicherà sulle sue decisioni». 

Grazie all’Italia e alla Grecia - Una giornalista si interessa della salute di Francesco dopo l’incidente al sopracciglio e allo zigomo. Sta bene, anche se a tutti appare, con i suoi 80 anni, molto affaticato. Esprime «gratitudine verso l’Italia e la Grecia, perché hanno aperto il cuore ai migranti». Apertura, aggiunge, che non può prescindere dalla capacità di accoglienza di ogni Paese. Invita a prendere coscienza dei «lager nel deserto» (in Africa, ndr) e riconosce al governo italiano di «fare di tutto per risolvere i problemi umanitari».

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