Dalla città liquida alla città solidale

L'intervento dell'Arcivescovo di Torino all'Assemblea della Caritas Diocesana al Teatro Valdocco 

Parole chiave: caritas (52), diocesi (138), città (139), chiesa (665)
Dalla città liquida alla città solidale

«La nostra città e il nostro territorio stanno assorbendo in pieno quella che viene chiamata “società liquida”, dove predominano la precarietà, l’individualismo, le parole e le promesse, ma pochi fatti concreti che affrontano i problemi reali della gente, invece o sottaciuti o rimandati a un domani vago e incerto. Questa liquidità, che rende tutto provvisorio e passeggero, attraversa la politica, l’economia, la cultura e i rapporti familiari e sociali, la religione “fai da te” e, di conseguenza, la morale, che non ha più punti di riferimento normativi e stabili, per cui l’io, il suo tornaconto del momento e il desiderio sfrenato di apparire e valere di fronte agli altri diventano il centro di tutto e il “noi” solo un fattore utilizzato a proprio uso e consumo. Rientra in questo discorso anche il tema del nostro incontro sull’autoreferenzialità, ovvero quell’assistenzialismo che va a scapito di una progettualità condivisa dalla stessa persona, che deve essere aiutata ad aprirsi alla comunità, trovando in essa il supporto stabile di riferimento per affrontare i suoi problemi ed elevare la propria situazione sociale con l’apporto congiunto di sé e degli altri.

La nostra diocesi sta assumendosi impegni gravosi, anche se sostenuti dalla volontà di tanti sacerdoti e laici con grande generosità, per far fronte al crescente numero di poveri e ad un diffuso disagio sociale, che incide anche nella vita delle famiglie e delle comunità locali.

C’è il rischio di una implosione del tessuto comunitario che ha sempre rappresentato il valore aggiunto della nostra Chiesa, ma anche della nostra società, sostenuta da una tradizione radicata nel Vangelo e dalla eredità dei cosiddetti “Santi sociali”. Quel “camminare insieme” che il mio predecessore cardinale Pellegrino pose alla base della sua prima Lettera pastorale resta tutt’oggi un traguardo che abbiamo ripreso come obiettivo di recente nell’Agorà del sociale, sperando di smuovere la sfiducia e la chiusura in se stessi o nel proprio mondo di riferimento istituzionale, politico, economico, finanziario, culturale, anche di coloro che, giorno per giorno, devono lottare per una vita migliore, se non per la loro stessa sopravvivenza – coloro che non hanno voce, o la cui voce si perde nel frastuono delle parole e delle promesse perbeniste di incoraggiamento che ricevono.

Abbiamo però tanti grandi e piccoli segnali positivi che ci danno speranza di poter resistere a questa deriva individualistica e ritrovare slancio e vigore nel campo dell’evangelizzazione, a partire proprio dai poveri. Possiamo contare su un generoso esercito di operatori e volontari, che lavorano per la causa della giustizia e degli ultimi, anche se oggi esso rischia di essere indebolito ed anche smantellato, a causa di indirizzi economici che accentuano la spinta al consumo individuale e diminuiscono risorse per una politica sociale più incisiva da parte degli organismi, associazioni e realtà che operano in modo permanente con le persone e che garantiscono loro un sostegno ed un rapporto individualizzato, giorno dopo giorno.

Il nuovo welfare Certo l’impianto del welfare va rivisto e rinnovato, tenendo presenti i nuovi e complessi scenari del rapido cambiamento sociale ed economico in corso. Soprattutto, è importante impostare una cultura diversa dei servizi e del rapporto con le persone, superando il puro assistenzialismo, gli sprechi, il clientelismo politico, la frammentazione degli interventi (a pioggia), a vantaggio della 2 razionalizzazione delle risorse, della capacità di incidere sulle cause che stanno a monte di tante situazioni di povertà e disabilità, dell’attivazione di reti di solidarietà tra istituzioni, volontariato, famiglie e soggetti interessati, per far fronte con varietà di risorse e di impegni alle necessità.

Il rischio tuttavia da evitare è che, volendo ristrutturare questo ampio settore di intervento, si cancelli lo stesso principio di solidarietà tra le diverse fasce della società, in nome di una ottimizzazione delle risorse e di un’esaltazione del privato sociale. Occorre dunque interrogarsi non solo sullo Stato sociale, ma prima ancora sul modello di sviluppo della nostra società, sull’organizzazione dei servizi, sul mercato del lavoro, sulle priorità verso le quali far rifluire le risorse disponibili. Al riguardo, la politica ha un compito irrinunciabile e determinante. Pertanto è dovere dei politici svolgere un’opera di vigilanza e di orientamento, che incida a monte sulle cause delle povertà e sappia impostare una politica sociale senza sprechi, non occasionale e di lungo respiro, dando forza anche alle realtà intermedie e al volontariato e soprattutto operando per la giustizia e l’equità.

Detto ciò, resta decisivo il mettere sempre e comunque al centro la persona umana, oltre ai suoi bisogni, e puntare a rendere ciascuno autonomo e responsabile di se stesso e capace di rendersi disponibile a contribuire con impegno alle proprie necessità, senza restare puramente passivo, fruitore dei servizi altrui. Papa Francesco parla sovente della “cultura dello scarto”, propria di una società che emargina e confina i più poveri e deboli al di fuori dell’ordinaria vita comunitaria, non tanto e solo sul piano dei beni materiali, ma dei diritti che spettano ad ogni persona per giustizia, prima ancora che per carità. La carità senza la giustizia si riduce a buonismo, paternalismo sterile, assistenzialismo che lascia le persone in uno stato di dipendenza continua da altri, più benestanti di loro.

La difesa dei diritti inalienabili di ognuno, la garanzia delle libertà fondamentali e il rispetto della dignità sono compiti da cui nessuno si può esimere. Proteggere i fratelli e sorelle più poveri e deboli è un imperativo morale, per assolvere al quale è necessario adottare strumenti giuridici chiari e pertinenti; compiere scelte politiche giuste e lungimiranti; prediligere processi costruttivi, forse più lenti, per i ritorni di consenso nell’immediato, ma che promuovono ascolto e dialogo con le persone e le realtà ecclesiali e civili che operano nei territori, in particolare nelle periferie; attuare programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro ogni forma di sopruso e sfruttamento, che lucrano sulle sventure altrui; coordinare gli sforzi di tutti gli attori, tra i quali ci sarà sempre la Chiesa.

Ma collegare il problema della povertà a quello del lavoro (e quindi della formazione) è decisivo. Per questo l’Agorà del sociale ha dato vita a uno stretto raccordo tra gli uffici di pastorale del lavoro, della salute, dei giovani, Migrantes e Caritas, perché debbono operare insieme per garantire l’attuazione del nuovo welfare di cui si parla. L’Agorà ha poi allargato il campo, oltre gli organismi ecclesiali, investendo anche quelli istituzionali e sociali, perché solo una rete di supporto, che veda tutte le componenti della nostra società investire il proprio apporto, potrà garantire la soluzione più efficace dei problemi che oggi assillano tante persone e famiglie.

Occorre inoltre avere uno sguardo più ampio del nostro oggi e saper avviare strategie di lungo respiro, basate su scelte essenziali che privilegino le persone prima delle opere, la famiglia, gli anziani e i ragazzi e giovani, i poveri; e, se mai, che concentrino le risorse in quelle opere che danno lavoro e lo conservano, garantiscono una casa a chi ne è privo, le cure necessarie per la salute di ogni persona, soprattutto di chi più è debole, malato e solo, e il sostegno alle scuole cominciare da quelle dell’infanzia, all’Università perchè rappresentano l’investimento più prezioso su cui puntare. Versanti peraltro che sono riconosciuti fondamentali e quindi dovuti per giustizia, dai servizi pubblici, sanciti con forza dalla nostra stessa Costituzione. Senza queste priorità, ogni impegno, pur importante e di tipo anche finanziario, risulterà alla lunga inefficace. E dopo il boom iniziale, ritornerà il deserto. 3 Integrazione o condivisione? Come reagire dunque a tante criticità che assillano la vita familiare, sociale ed ecclesiale di molte persone e comunità? La via della carità, della solidarietà e del servizio può essere un antidoto, ma esige, da parte di chi se ne fa carico, uno sforzo nell’operare concretamente per farvi fronte, ponendo alla base di tutto l’incontro e la relazione con ogni singola persona, perché camminando insieme, accompagnandosi passo passo sulla via della conoscenza e della condivisione di se stessi, si giunga a risuscitare nella coscienza di ciascuno la consapevolezza di poter ritrovare un solida àncora di stabilità, su cui appoggiarsi per riprendere coraggio e speranza nel proprio domani.

Questo è un passaggio decisivo, che riguarda anche la capillare e ampia azione caritativa nei quartieri e paesi della nostra diocesi, dove tanti di voi si prestano ogni giorno per alleviare le sofferenze di persone e famiglie, sostenendoli nelle loro necessità più concrete e necessarie per la loro quotidiana esistenza. Si parla per questo di inclusione sociale e di integrazione; ma tale inclusione e integrazione vanno impostate nel modo migliore, tenendo ben presente quanto l’insegnamento del Vangelo ci prescrive, indicandoci la necessità di promuovere ogni persona, perché sia valorizzata sul piano della condivisione basata sullo scambio reciproco di doni gli uni con gli altri.

I poveri, i malati, gli immigrati e rifugiati non sono persone che “non hanno”, per cui siamo obbligati ad assisterli; sono persone che possono darci molto di ciò del quale abbiamo bisogno noi stessi – e ne ha bisogno la cittadinanza, sia sul piano etico, interiore e umano che sociale. Anzi, spesso essi possono donarci di più di quello che noi doniamo loro. In un recente discorso sui migranti e rifugiati, Papa Francesco ha detto che «l’integrazione, che non è né assimilazione né incorporazione, è un processo bidirezionale, che si fonda essenzialmente sul mutuo riconoscimento della ricchezza culturale dell’altro: non è appiattimento di una cultura sull’altra, e nemmeno isolamento reciproco, con il rischio di nefaste quanto pericolose “ghettizzazioni”» (Discorso al Forum internazionale “Migrazioni e pace”, 21 febbraio 2017).

E una forma di ghettizzazione è certamente quella che privilegia i grandi assembramenti di persone o famiglie, che generano difficoltà di convivenza sia tra loro che con la gente del territorio dove abitano, generando paure e situazioni di vulnerabilità e disagio. «I programmi di accoglienza diffusa – ha proseguito il Papa –, già avviati in diverse località, sembrano invece facilitare l’incontro personale, permettere una migliore qualità dei servizi e offrire maggiori garanzie», per un più disponibile coinvolgimento della comunità, oltre che avvio di percorsi di lavoro che tengono conto delle concrete competenze e possibilità di ciascuno. Questo discorso vale anche per ogni forma di povertà con cui abbiamo a che fare oggi. La carità non è un optional ed esige la comunità C’è inoltre un altro aspetto importate che riguarda le nostre parrocchie e comunità. In esse, il servizio ai poveri è non solo presente, ma rappresenta un elemento forte e visibile tra i più efficaci. L’ho chiamato più volte una perla preziosa che ho trovato nelle parrocchie e in moltissimi gruppi, comunità religiose e civili, che si dedicano con un capillare volontariato ad alleviare le sofferenze e i bisogni dei poveri, degli emarginati, degli immigrati, dei senza dimora, dei disabili.

Tuttavia, se guardiamo alla comunità nel suo complesso, all’utilizzo delle strutture stesse delle parrocchie, c’è ancora molto da fare per rendere più ampia e capillare l’azione caritativa. La formazione alla carità, l’animazione della comunità e il coordinamento, che sono tra i compiti principali della Caritas, restano, a volte, in ombra e rischiano di perpetuare un’idea di carità che lascia il carico poi dell’azione concreta ai volontari: gente generosa, certo, ma troppo isolata dal resto della comunità.

Preoccupa in questo il fatto, ad esempio, che a portare avanti gli impegni caritativi in molte 4 parrocchie siano poche persone, che, da anni e anni, si impegnano con una dedizione veramente ammirevole, supplendo alla carenza dei giovani e delle famiglie. Manca, o non è ancora penetrata nella mentalità e nel costume di vita delle assemblee domenicali e dunque nella comunità, la convinzione che la carità non è un optional o un lavoro per addetti, ma un debito-dovere di ogni cristiano, sul quale saremo giudicati e dal quale soltanto possiamo trarre motivo di credito davanti a Dio.

Non è dunque solo questione di attivare in ogni parrocchia la Caritas o le conferenza di San Vincenzo – scelta che, a suo tempo, il Sinodo diocesano fortemente raccomandò –, ma di educare il popolo di Dio ad assumere in quest’ambito una più decisa responsabilità collettiva, superando la delega. Su questo punto, credo che molto possano fare le unità pastorali, attivandosi in collaborazione con la Caritas diocesana per sviluppare un’opera di formazione, di coordinamento e di animazione necessaria a sostenere le comunità ed i vari gruppi che ispirano la loro azione al Vangelo e per ottimizzare le risorse, mirando alle povertà più urgenti e bisognose di aiuto sul territorio e ricercando altresì quelle sinergie e raccordi necessari con i Servizi sociali dei Comuni, con le ASL e con ogni altro organismo civile interessato. Quali passi è dunque necessario fare, perché il cammino della Caritas in diocesi sia ricco di fede e aiuti le comunità a riconoscere Cristo nei poveri? Occorre che curiamo bene: * la formazione di base e permanente dei volontari e operatori. È richiesta una formazione essenziale sul piano della fede, oltre che sul sociale e su quello delle “professionalità specifiche”.

Maturità cristiana, competenza professionale, ma anche grande umanità, quella che il Papa chiama “attenzione del cuore”, sono da sostenere adeguatamente nell’opera di chi si impegna in questo ambito pastorale; * un coordinamento di unità pastorale, che dia vigore e forza alle varie iniziative e faccia dialogare ed incontrare le realtà e le persone. La Caritas deve proporsi come realtà di animazione e di coordinamento, per offrire stimolo e forza all’impegno di unità e comunione che deve guidare quanti agiscono in quest’ambito. La carità comporta unità, altrimenti si frammenta in tanti rivoli, che disperdono le forze ed impediscono di affrontare seriamente e con le dovute risorse le povertà vecchie e nuove del territorio; * la grande sfida della missione, su cui la Chiesa oggi è impegnata anche nel nostro Paese, comporta annunciare Cristo ed il Vangelo dell’amore ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito. Chi opera nella carità e nella solidarietà è di per se stesso portato a vivere la missione sulla strada, andando a incontrare la gente nelle situazioni e nei luoghi dove vive miserie e povertà. Da qui occorre ripartire, per far sì che l’azione caritativa sia vissuta non solo come un “di più” generoso, un frutto della buona volontà di pochi, ma come un compito di tutta la comunità cristiana, che se ne fa protagonista e responsabile proprio sul piano missionario, per diventare più missionaria e dunque aperta all’uomo, da servire nelle sue necessità spirituali e materiali;

* le vocazioni al volontariato e alla carità. È necessario restare sempre aperti al nuovo che lo Spirito suscita, anche in un singolo cristiano, e non fossilizzarsi sulle realtà già esistenti e ben impiantate. C’è bisogno di attivare un ricambio, anche mediante i giovani, che vanno educati e resi protagonisti nel campo della carità. Il sangue nuovo è linfa che dà vigore e rilancia l’azione caritativa. La Caritas deve operare per questo, promuoverlo, dare sostegno, affinché crescano anche gli apporti più umili. Essa non è una realtà onnicomprensiva, che raggruppa tutti e tutto in un unico contenitore, ma un servizio di animazione e di promozione di ogni altro gruppo o componente ecclesiale, con la sua specificità e ricchezza. Da tutti deve imparare, prima che insegnare. Ma ha anche il compito di orientare e lavorare perché ci siano unità e convergenza spirituale, pastorale e sociale tra quanti operano nel settore e tra le molteplici realtà stesse che ne fanno parte, sia di stampo ecclesiale e cristiano, che laico e civile. 5 Solo l’amore genera amore Concludo, richiamando la necessità che quanti operano a servizio dei più poveri si facciano guidare dalla fede e dall’amore di Cristo, il quale risveglia l’amore del prossimo e lo orienta.

«L’amore di Cristo ci spinge» (cfr. 2Cor 5,14), diceva san Giuseppe Cottolengo. Chi ama Cristo e ama la Chiesa, la conduce sulle vie dell’amore per ogni persona, riconosciuta e accolta come figlio di Dio e dunque fratello e sorella. L’azione pratica e rivolta ad ognuno di coloro che si trovano in difficoltà rende percepibile e concreto l’amore di Cristo per l’uomo. Così, la via della carità diviene via di evangelizzazione e chi opera in essa diviene un evangelizzatore cosciente di dare non solo servizi, ma se stesso, e di farlo nel nome di Cristo, comunicando lui come fonte prima di amore e di dono. Da qui scaturisce l’importanza della preghiera come fonte prima della carità, a cui attingere forza e vigore anche di azione.

Solo l’amore di Dio genera amore del prossimo e l’amore del prossimo rinsalda e fortifica l’amore di Dio. Vi auguro di vivere così il vostro impegno nell’ambito della carità e di rendere anche la Caritas ed ogni altro organismo che si occupa di carità una realtà che agisce con generosità e professionalità nel campo della solidarietà e della condivisione con ogni persona in difficoltà, ma anche una via privilegiata di evangelizzazione e dunque di svelamento dell’amore di Dio per ogni uomo. Ogni volta che incontrate un povero e lo assistete nei suoi bisogni materiali, chiedetevi sempre se e come dargli anche una risposta ai suoi bisogni morali, spirituali e sociali, che porta con sé e di cui sente profonda la necessità. Solo così l’amore che donate genererà amore in lui e in voi, un amore che va oltre l’umano e rivela l’Amore di Cristo che salva e dona a tutti la vera vita.

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