Addio Riboldi, testimone coraggioso del Vangelo sulle strade del mondo

La scomparsa del pastore rosminiano, milanese di nascita, che operò come pastore che aiutò le popolazioni terremotate del Belice e come Vescovo di Acerra si oppose alla criminalità organizzata in Campania

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Addio Riboldi, testimone coraggioso del Vangelo sulle strade del mondo

Di mons. Antonio Riboldi, morto il 10 dicembre 2017 a 94 anni nella casa dei Rosminiani a Stresa, i cattolici italiani si accorsero nel primo convegno nazionale «Evangelizzazione e promozione umana» a Roma il 30 ottobre-4 novembre 1976.  Durante una tavola rotonda parlò della sua esperienza fra i terremotati siciliani nella valle del Belice, sconvolto dal sisma che nella notte del 14-15 gennaio 1968 colpì una vasta area della Sicilia. Era parroco a Santa Ninfa, provincia di Trapani e diocesi di Mazara del Vallo.

Antonio Riboldi nasce il 16 gennaio 1923 a Triuggio (Milano) in una famiglia di modeste condizioni economiche, entra nell'Istituto della carità (Rosminiani) fondato nel1828 al Sacro Monte Calvario di Domodossola (Novara), dall’abate Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), filosofo e teologo, tra le personalità più vigorose del cattolicesimo italia­no dell'Ottocento, beato dal 2007.

Antonio frequenta il noviziato. Nella primavera 1944 novizi e superiori sfollano alla Sacra di San Michele a Sant'Ambrogio di Torino, affidata da re Carlo Alberto ai Rosminiani. Il 21 maggio ’44 il ventunenne Antonio è coinvolto in una rappresaglia dei tedeschi: mettono al muro i novizi e i religiosi per due ore minacciandoli di fucilazione. Dopo un colloquio dell'ufficiale tedesco con padre Andrea Alotto, storico rettore della Sacra, il gruppo è liberato.

Ordinato sacerdote il 29 giugno 1951 a Novara dal vescovo Leone Giacomo Ossola, nel 1958 è parroco di Santa Ninfa nel Belice e si trova dal 1968 a fronteggiare l’emergenza causata dal terremoto e le ben più pericolose prepotenze della mafia. Organizza la lotta dei parrocchiani per ottenere una casa: come loro e come la chiesetta, vive per anni in una baracca di legno. Partecipa a cortei e manifestazioni in Sicilia e a Roma in difesa delle richieste dei concittadini e collabora con diverse persone, nemiche della mafia, legate alla vita politica e istituzionale della Sicilia come il prefetto-generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il presidente della Regione Siciliana on. Piersanti Mattarella, entrambi assassinati dalle cosche.

Rivive la sua esperienza nelle 171 dense pagine del «I miei 18 anni nel Belice» (Cittadella, 1977): «Il terremoto ha acuito la drammatica situazione preesistente, caratterizzata da povertà diffusa e dall’endemica carenza di lavoro e di case. Nei siciliani terremotati sono cresciuti l’individualismo, la paura, l’indifferenza, i fenomeni mafiosi». Racconta anche la visita compiuta da lui e dai bambini del Belice a Roma il 24-25 febbraio 1976: sono ricevuti dai presidente della Camera Sandro Pertini, del Consiglio dei ministri Aldo Moro, del Senato Ugo Spagnolli, della Repubblica Giovanni Leone e in Vaticano da Paolo VI: «Sarò anch’io un po’ l’avvocato del Belice. Siete contenti?».

Nell’autunno 1976 al convegno Epu a Roma, di mafia parla solo il parroco Riboldi: «Chi "ha" e "può" è la prepotenza spinta al massimo, quella che si impone con la forza e che è ovunque, la "mafia"» e denuncia il potere della Chiesa «soprattutto per la complicità con il potere politico». Commenta Rosario Giuè nel documentato libro «Vescovi e potere mafioso» (Cittadella, 2015) con prefazione di don Luigi Ciotti: «Su questa linea di attenzione il convegno suscitò molto entusiasmo, specialmente nella base del popolo di Dio ma anche in diversi vescovi. Ma preoccupati di salvaguardare l'unità politica e culturale dei cattolici, i vertici dell'episcopato e del Vaticano tornarono a marcare la "via politica", puntando sulla forza della presenza organizzata e visibile dei cattolici in politica. La denuncia di don Riboldi, quel pur breve ma chiaro accenno alla mafia, non ebbe alcun seguito nel documento conclusivo del convegno, né fu ripreso dall'episcopato».

Il 25 gennaio 1978 Paolo VI nomina don Riboldi vescovo di Acerra in Campania. Il 18 giugno ’78 mons. Riboldi è a Torino e incontra l’arcivescovo Anastasio Alberto Ballestrero e a «Villa Lascaris» di Pianezza parla agli animatori subalpini della pastorale degli immigrati. Intervistato dal sottoscritto sull’esperienza ad Acerra, disse: «Mi hanno accolto con entusiasmo ma corro il rischio di diventare un mito e io non lo voglio assolutamente. È il Sud che deve parlare e farsi ascoltare». Nel novembre ’78 torna e «Gazzetta del Popolo» titola: «”Don terremoto” è a Torino. Dal Belice al dramma Acerra».

Nel 1979 Giovanni Paolo II nomina presidente della Cei Ballestrero, che prima dell’episcopato a Torino (1977-89) è arcivescovo di Bari (1973-77). Uno dei documenti più significativi della sua presidenza è «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese» (23 ottobre 1981): «Il Paese non crescerà se non insieme. Di fronte ai gravi problemi del Paese, la Chiesa non può starsene alla finestra né chiudersi nelle sagrestie». In quegli anni sono due i vescovi rosminiani alla ribalta: Riboldi e Clemente Riva, uomo del dialogo, cappellano di Montecitorio, vescovo ausiliare di Roma.

Nel decennio 1981-90 in Campania ci sono 2.621 omicidi. L’episcopato campano, del quale Riboldi è membro molto attivo, il 29 giugno 1982 pubblica «Per amore del mio popolo, non tacerò»: parla non genericamente di «criminalità organizzata» ma esplicitamente «contro il fenomeno della camorra», nominata venti volte in sole sei pagine. Un linguaggio fino ad allora mai registrato nei documenti Cei. Spinge la comunità a ribellarsi alla «dittatura» della camorra, a uscire alla luce, a riappropriarsi della dignità e della storia di uomini e donne liberi; fa autocritica e invoca «una revisione e integrazione dei contenuti e metodi della pastorale». Constatò amaramente Riboldi: «Purtroppo il documento non fece molta strada né nella conoscenza tramite i mezzi di comunicazione, né nelle coscienze che contano molto di più». Ma non mancano altre pubbliche e forti prese di posizioni. Il 4 ottobre 1992 firma «Il coraggio di ricominciare». Nel 2007 mons. Riboldi a 75 anni si dimette ma continua la sua missione per esempio nella rubrica radiofonica della Rai «Ascolta, si fa sera».

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