Uomini come noi

Il direttore dell'Ufficio Migranti della Diocesi di Torino descrive la situazione a Torino e in generale: una realtà che va oltre l'emergenza

Parole chiave: profughi (55), immigrazione (42), progetto (35), accoglienza (23), responsabilità (4)
Uomini come noi

Sbarchi, nuovi arrivi, morti in mare, un gruppo nuovo da accogliere... Numeri che dicono tanto, poco o forse niente se non letti attraverso alcune lenti. Una potrebbe essere quella dei migranti forzati che ogni anno sono costretti a lasciare il proprio paese: nel 2012 45 milioni, nel 2013 51, nel 2014 60 milioni. Il numero cresce di anno in anno. E’ presumibile che una piccola percentuale arrivi anche nel nostro paese e la domanda che viene da porci è: perché non ci attrezziamo? Eravamo ieri (almeno dal 2008) in emergenza, lo siamo oggi, domani ancora di più se manca una regia, un visione, un progetto nazionale che «semplicemente»  si attrezzi per garantire un numero ragionevole di posti di accoglienza.

Se nel 2014 sono sbarcate 174.000 persone (dei 60 milioni!) e di queste oltre 100.000 hanno proseguito il loro viaggio in altri paesi, in Italia ne sono rimaste 66.000 che hanno messo in allarme l’accoglienza. Basterebbe organizzare una rete e una distribuzione territoriale che garantisca 100.000 posti per non vivere questi arrivi con affanno e allarmismo. Altri paesi lo fanno, ci riescono, quindi è possibile. Certo, la politica che non guarda al mondo, che non aiuta i territori a comprendere quanto sta succedendo, ma che crea paure, alimenta pregiudizi nutrendosi di disinformazione non aiuta il paese e non affronta le questioni. Solo 450 comuni su oltre 80.000 hanno dato disponibilità ad accogliere rifugiati attraverso il sistema nazionale Sprar, e questa mancanza di disponibilità delle amministrazioni comunali ha garantito 20.000 posti che sommati ai posti Cara raggiungono la cifra di 30.000. Se il numero di rifugiati rimasti in Italia è 66.000, mancano all’appello 36 mila posti. Ecco dunque da dove arriva l’emergenza, con i nuovi arrivi gestiti di giorno in giorno attraverso le prefetture, sempre alla ricerca di nuovi posti di accoglienza. Loro non ne possono nulla. Loro sono uomini e donne come noi. Loro non sono l’emergenza. Loro sono vittime tante volte.

Il loro arrivo interpella la nostra capacità di accoglienza come sistema paese, che oggi vede alcune città ospitanti in preda al caos. E’ poi possibile che nella gestione non programmata del fenomeno, si generino situazioni di conflitto dove il capro espiatorio è il rifugiato e non chi ha in mano il governo del territorio nazionale, incapace di creare un sistema di accoglienza civile. Veniamo alle accoglienze. La diretta conseguenza della mancanza di un approccio sistematico, porta ad avere città di media grandezza estranee all’accoglienza e piccoli comuni, magari nelle periferie montane, ad accoglierne un numero troppo alto rapportato alla popolazione. La mancanza di regia genera squilibri territoriali e gestioni molto diverse tra loro. C’è chi lavora bene, chi meno bene e chi lavora proprio male. Anche sui nostri territori esistono esperienze virtuose accanto ad altre che lo sono certamente meno. Vivere l’emergenza quotidianamente è stancante. Elemosinare posti, bussare alle porte nella speranza che si aprano, trovare soluzioni di ora in ora… poi ascolto le storie delle persone e rientro chiedendomi perché sono nato in questo tempo, in Italia, e perché lui è nato in Siria, lei è cresciuta in Somalia, e perché quell’uomo ha dovuto abbandonare la sua famiglia in Sudan.

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido. Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me».  Mi sovviene il grido lacerante di uomini e donne in mezzo a noi, che hanno percorso viaggi dove di umano non si trova nulla, impauriti, in cerca di speranza. E proprio mentre scavo in questi pensieri la vista di Ida ridona il senso del nostro agire.

Ida oggi è fiera. Sembra volare nel raggiungere la scrivania di Gianfranco. Ha una busta in mano e gli occhi lucidi. Il 21 ottobre prossimo diventerà dottoressa in Chimica industriale, dopo anni di studio e lavoro. E’ stata operaia in fabbrica, poi colf,  lavapiatti, babysitter e stagista presso una famosa marca di profumi. Nella busta consegna i soldi per le utenze della casa in cui vive con altri 7 studenti di origine straniera, messa a disposizione dalla Diocesi di Torino. «Ho beneficiato solo il primo anno della borsa di studio, poi ho dovuto arrangiarmi da sola. Da marzo 2014 vivo nell’appartamento gestito dall’Ufficio Pastorale Migranti, che mi ha permesso di continuare a studiare».

Oggi Ida ha terminato gli esami e già sta cercando lavoro. Ha dovuto cambiare i suoi programmi: «Inizialmente pensavo di ritornare in Camerun, dalla mia famiglia, ma vista la situazione del mio Paese ho deciso di rimanere qui».  Ida investirà il suo futuro in Italia dunque, a Torino. Di fronte al fenomeno di fuga di giovani dalle nostre città, casi come quelli di Ida ci ridanno speranza. L’esodo dei nostri giovani verso mete estere è un fenomeno ormai rilevante. Il numero degli emigranti italiani all’estero, oltre 4.500.000, sta raggiungendo quello degli immigrati in Italia, stimati in circa 5 milioni. Nell’anno 2014 sono circa 140 mila le persone emigrate dall’Italia, mentre sono sempre più residuali i numeri degli immigrati economici in arrivo. In un Paese dove il saldo demografico è negativo, l’arrivo di nuovi cittadini non dovrebbe spaventare. Eppure il loro arrivo non è sempre il benvenuto. Oggi a entrare nei nostri territori sono perlopiù profughi, giovani migranti forzati da terre interessate da guerre e carestie.

Con loro portano un bagaglio di sofferenza, ma anche di cultura e conoscenze. La Diocesi di Torino ha aperto le sue porte a decine di rifugiati che oggi sono iscritti a scuole di formazione e addirittura a corsi universitari. Nonostante l’immagine che passa e rimane sia quella di invasione, il numero di profughi attualmente presenti in Italia si aggira intorno ai 75 mila. «Un Paese di 60 milioni di abitanti, che può ospitare sino a 45 milioni di turisti l’anno, non può essere messo in ginocchio di fronte a 75 mila profughi», ha affermato in modo provocatorio sulle pagine di Avvenire qualche giorno fa mons. Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes. Perché non si tratta di invasione. Neanche nella regione del Piemonte, dove le varie accoglienze temporanee e i progetti Sprar ospitano oggi 4.474, di cui 1849 a Torino. L’incidenza sulla popolazione regionale è di un migrante ogni 989 residenti.

E’ lavoro ormai quotidiano quello di cercare soluzioni «  creative»  nel trovare luoghi e modi per accogliere. La Diocesi di Torino ha ben compreso la necessità di interrogarsi e farsi partecipe di un compito tanto difficile quanto importante. Una buona partenza per non rimanere delusi è lavorare in rete, soprattutto con enti locali, Prefettura, associazionismo e enti religiosi e tra Chiese come la Diaconia Valdese. Il sistema Torino regge… ma fino a quando riuscirà a sostenere una situazione di continua emergenza?

La nostra Chiesa è attiva, certo stimolata dalla recente visita di Papa Francesco- bello lo slancio di alcune Congregazioni, che da settembre metteranno a disposizione camere vuote per dare un rifugio a profughi, parrocchie che attivano forme di prossimità, di vicinanza, altri istituti che progettano accoglienze su immobili inutilizzati. Con un bello spirito: accoglienza non è solo dare un tetto e del cibo, accoglienza è aprire il cuore. Si respira una bella energia in una riflessione avviata con associazioni e Diaconia Valdese su nuovi modelli di accoglienza territoriale da proporre alla Prefettura di Torino, che superino lo stato emergenziale che poco agevola la creazione di buone pratiche, attraverso il coinvolgimento delle famiglie. Con il Comune di Torino la Diocesi sta attuando una parte del progetto di inserimento in famiglia di una decina di profughi ed è disponibile a mettere in campo competenze e risorse nel dare risposta alle diverse esigenze.

Da settembre stiamo cercando quattro famiglie affidatarie per l’inserimento di quattro minori rifugiati. La Diocesi di Torino opera avendo ben presente che in situazioni complesse solo una buona rete di persone e competenze possono dare i frutti migliori. Questo vale sia per chi accoglie sia per chi è accolto. Quando si è soli, la via d’uscita sembra più lontana.  La Migrantes continua la sua opera di informazione, nella speranza di riuscire ad aprire la testa e di conseguenza il cuore delle persone verso il Dio straniero che oggi bussa e visita le nostre comunità.

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