Società della sicurezza o dell’esclusione?

Analisi: il dibattito alla camera sulla legittima ci interroga sulle ragioni della nostra «ricchezza» che sono anche le cause della nostra precarietà

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Società della sicurezza o dell’esclusione?

Che cosa diciamo, quando parliamo di «sicurezza»? Il dibattito apertosi con l’approvazione alla Camera dei provvedimenti sulla legittima difesa è, ci pare, solo una porzione del tema (e se ne parla diffusamente in altra parte del giornale). La questione della sicurezza è, invece, globale e trasversale. Per esempio: è diventato normale interessarsi alla sicurezza alimentare, con una maggiore attenzione alla filiera dei prodotti che finiscono sui mercati e sule nostre tavole; è un «valore» indiscutibile la sicurezza ambientale, che scopriamo sempre minacciata da mutamenti climatici o interventi speculativi sul territorio; c’è una sicurezza sanitaria continuamente alla ribalta, grazie alla cronaca: famiglie che rifiutano le vaccinazioni, infermiere che fingono di vaccinare.

Per non parlare delle falle e dei ritardi nel sistema sanitario che spesso mettono a rischio le nostre stesse vite… Come è facile constatare, si va ben oltre la prospettiva del ladro o del rapinatore che di notte va ad assalire la saracinesca della tabaccheria.

La dimensione della sicurezza è diventata sinonimo di progresso se non, addirittura, di civiltà. C’è in ogni passaggio il segno di una conquista sociale che si traduce in una maggiore attenzione collettiva, che diventa cultura condivisa e infine «politica» - la ricerca della sicurezza si traduce cioè in provvedimenti amministrativi e legislativi che incontrano e suscitano il consenso dei cittadini (o almeno: di una parte di essi).

Ma, come per tutte le realtà umane, quello della sicurezza è un discorso a doppio taglio. Se pensiamo alla paura strisciante che tutti condividiamo di fronte alla minaccia del terrorismo di (sedicente) matrice islamica, che cosa dobbiamo dirci e farci, in termini di sicurezza? E le cose non vanno meglio, come si sa, circa la sicurezza delle frontiere: in Europa come in America, come in Israele.

Proprio le «conquiste di sicurezza» che ci sbandieriamo in campo alimentare o sanitario non corrispondono più da tempo a una «sicurezza sociale» di tutti i cittadini. Parliamo di «filiera corta» e di prodotti controllati e contemporaneamente fotografiamo l’allungarsi delle code davanti alle mense dei poveri; esigiamo una protezione più accurata dei nostri beni e delle nostre case, pur sapendo che in quelle case abitano ragazzi e giovani adulti che non sono in grado di garantirsi, col lavoro, il sostentamento minimo. Nella società dei due terzi - o, più giustamente, dello scarto, dell’esclusione - ciò che interessa alla maggioranza sembra rendere noioso e superfluo occuparsi anche delle minoranze escluse. Il paradosso lampante arriva dalle cronache di sabato scorso: i proprietari di banche e case del centro di Torino chiedono alla Soprintendenza di poter montare cancelli e barriere, per evitare che, con la bella stagione, i senza tetto vadano a dormire sotto i portoni aulici o nei giardinetti interni dei palazzi…

Così bisogna dirsi che società della sicurezza e società dell’esclusione hanno inquietanti punti di contatto, o sono forse le due facce di uno stesso problema. Perché il tema della sicurezza si connette anche, e strettamente, con quello del denaro, del possesso dei beni, e dell’identità. Se è fuori discussione il diritto a difendere i propri beni e la propria persona, chi sono davvero gli «attentatori» alla nostra sicurezza? Il Vangelo ci rimanda l’immagine del «ladro che viene nella notte». Ma oggi i «ladri» hanno assunto forme ben diverse: ci sono quelli che rubano le nostre identità su Internet, o le intimità di immagini che ingenuamente abbiamo affidato alla rete. E non sono forse «ladri», almeno in senso lato, quelli che hanno costruito un «sistema mondiale» in cui tutti siamo debitori rispetto alla vertiginosa piramide di derivati che «vale» 12 volte il prodotto interno lordo del pianeta?

Le ragioni della nostra «ricchezza» sono anche le cause della nostra precarietà: le assicurazioni coprono praticamente ogni condizione di rischio in cui può incorrere la nostra vita, e la nostra morte. Ma proprio il concetto di rischio in vista del guadagno è andato a sostituirsi, nell’esistenza quotidiana, a quel valore che era il risparmio, garantito non da un’assicurazione ma dalla solidità complessiva di un Paese, di un sistema sociale, di un’economia che si sforza di crescere non solo con gli strumenti (questi sì incerti e virtuali) della finanza. Ci permettiamo una citazione, vecchia ormai di dieci anni: «Portare i tassi dei titoli senza rischio quasi a zero vuol dire incoraggiare i mercati a speculare apertamente e senza ritegno. Vuol dire anche sapere, però, che una inversione di rotta può avvenire solo con conseguenze traumatiche prima sulla sovrastruttura finanziaria e poi sulla struttura reale dell’economia mondiale. Questo è quanto ora sta accadendo» (Marcello De Cecco, La prima crisi della seconda globalizzazione, in Repubblica – Affari e finanza, 17 settembre 2007 pag. 1). 

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