Istat: una società di impiegati e pensionati, dove i giovani restano al palo

Sotto i colpi della grande crisi la società italiana si è ulteriormente frammentata, soprattutto nei livelli più in difficoltà. Ci si è persi per strada la classe operaia e una buona parte della piccola borghesia e il solo reddito non può essere più un parametro sufficiente di analisi

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Istat: una società di impiegati e pensionati, dove i giovani restano al palo

La società italiana è cambiata così profondamente che, per cercare di analizzarla con la migliore approssimazione possibile, l’Istat ha provato a mettere da parte le tradizionali categorie sociali e a descriverla individuando – dati alla mano – nove gruppi sociali. Il quadro complessivo che risulta dal Rapporto annuale 2017 non è molto diverso da quello che si è abituati a considerare:

una società di impiegati e pensionati, che invecchia sempre di più, con troppi giovani che non hanno lavoro e restano a casa con i genitori; una società in cui crescono le disuguaglianze, in cui aumenta la polarizzazione tra benestanti e poveri, effettivi o potenziali, e in cui fare figli aumenta automaticamente il rischio povertà; una società che ha ripreso finalmente a muoversi ma ancora troppo lentamente, in cui il cosiddetto “ascensore sociale” sembra funzionare soltanto in discesa (a crescere è soprattutto l’occupazione di bassa qualità) e in cui, nonostante i tanti cambiamenti, il dualismo Nord-Sud continua a rappresentare una variabile significativa.

Lo sforzo compiuto dall’Istat è comunque molto interessante perché aiuta a comprendere la complessità della società italiana, che sotto i colpi della grande crisi si è ulteriormente frammentata, soprattutto nei livelli più in difficoltà. Ci si è persi per strada la classe operaia e una buona parte della piccola borghesia e il solo reddito non può essere più un parametro sufficiente di analisi. Così l’Istituto nazionale di statistica ha elaborato una lettura “multidimensionale” che alla componente economica (reddito, condizione occupazionale) associa quella culturale (titolo di studio) e quella socio-demografica (cittadinanza, dimensione della famiglia, ampiezza demografica del comune di residenza).

Il reddito resta il criterio di base. Si parla naturalmente di reddito equivalente, cioè rapportato alla diverse situazioni, perché se si vive da soli o se si è in quattro non è la stessa storia. In base ad esso l’Istat ha diviso i nove gruppi sociali in tre fasce: a basso reddito, a reddito medio e “benestanti”. Va subito detto che questi gruppi non possono essere pensati come realtà assolutamente omogenee, soprattutto agli estremi della scala: la frammentazione è anche all’interno di essi.
In sintesi, nella prima fascia troviamo le “famiglie a basso reddito con stranieri” (4,7 milioni di persone), quelle in cui almeno un componente non ha la cittadinanza italiana e che stanno peggio di tutte; le “famiglie a basso reddito di soli italiani” (8,3 milioni di persone); le “famiglie tradizionali della provincia” (3,6 milioni); i nuclei definiti “anziane sole e giovani disoccupati” (5,4 milioni). Un accostamento sorprendente, quest’ultimo, ma che deriva dalla scelta dell’Istat di non stabilire a priori la tipologia delle categorie, lasciando che siano i dati a determinare i raggruppamenti. In realtà quasi il 90% di questo gruppo è costituito da pensionate, ma titolari di trattamenti non derivati dal lavoro (quindi pensioni sociali, ecc.). Il che fa subito capire come occorra fare molta attenzione quando si parla – non impropriamente – di pensionati come categoria economicamente “protetta” senza però fare i dovuti distinguo.

Nella fascia a reddito medio compaiono i “giovani blue-collar” (i “colletti blu”) così denominati perché nella maggior parte dei casi il principale percettore di reddito è un operaio a tempo indeterminato (giovane relativamente: età media 45 anni). Si tratta di 6,2 milioni di persone. In questa fascia anche le “le famiglie degli operai in pensione” (10,5 milioni di individui).

Chi sta meglio. Tra i “benestanti” l’Istat indica le “famiglie di impiegati” (12,2 milioni di persone, un quinto della popolazione), in cui spicca il dato secondo cui in quattro casi su dieci il principale percettore di reddito è una donna. Ci sono poi le “pensioni d’argento” (per distinguerle da quelle d’oro che sono un caso a parte), che annoverano 5,2 milioni di persone, e la “classe dirigente”, con titolo di studio universitario e reddito superiore del 70% a quello medio nazionale (4,6 milioni di individui).

Non sarà un calcolo molto sofisticato, ma basta fare le somme per verificare che nella fascia a basso reddito così come in quella dei benestanti si ritrovano circa 22 milioni di persone, mentre sono poco meno di 17 milioni quelle nella fascia di reddito medio. Una clessidra che rappresenta plasticamente la polarizzazione sociale, documentata in modo impressionante da due indicatori: i livelli di spesa e il tasso di povertà. Ordinando le famiglie dal valore di spesa equivalente più basso a quello più alto e dividendo le famiglie in cinque gruppi numericamente uguali (i quinti, ognuno dei quali è pari al 20% della popolazione), l’Istat ha calcolato che i primi due quinti hanno speso il 20,8% del totale, contro il 62,2% dei due quinti più alti. Quanto alla povertà assoluta, la sua incidenza è superiore a un terzo (34,4%) delle persone del gruppo con il reddito più basso, mentre è praticamente inesistente nelle famiglie della classe dirigente e si ferma all’1,6% nelle famiglie delle pensioni d’argento e degli impiegati.

Fonte: Sir
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