I giovani parcheggiati, il fenomeno dei "Neet"

Le nuove generazioni vivono il dramma di non fare nulla. Don Cravero riflette sulle nuove sfide dell'educazione, partendo dalla fatica delle famiglie. Fra le opere di misericordia si deve considerare anche l'offerta, il "dono" di un'occupazione

Parole chiave: neet (7), giovani (205), lavoro (167), generazioni (3), società (56)
I giovani parcheggiati, il fenomeno dei "Neet"

L’Anno Santo ci sta stimolando sulla pratica delle opere di misericordia. Papa Francesco ha chiesto alle comunità non solo di riprendere quelle dell’antica tradizione, ma di ripensarle per la nostra nuova condizione sociale. Perché non manchi il cibo, la casa e il vestito, perché la vita non sia inumana, ci vuole il lavoro. Un’opera oggi prioritaria sarebbe quindi «donare il lavoro». Non «dare lavoro», cosa che pochi oggi possono fare, ma «donarlo», che è una responsabilità di tutti. Si è creata, infatti, una situazione sociale che prima ancora di deteriorare l’economia ha svalutato il lavoro.

Fino agli anni ’90 si è continuato a vivere sopra le righe, si è tardato a percepire l’incongruenza di un preconcetto di libertà senza limiti, è avvenuto un lungo doping emozionale che ha fiaccato tutti. In questi termini già si pronunciavano alcuni documenti ecclesiali degli anni ’80. Del lavoro si è perso anche il senso e la motivazione. Oggi ci troviamo immersi in situazioni così critiche da mettere in discussione sicurezza, fiducia, autostima e prospettive future. I giovani oggi sono più poveri, dipendenti dalle famiglie, immobili, smarriti.

Un recente libro di A. Rosina, «Neet», riporta e commenta i dati di ricerca sui 2,4 milioni di giovani che non studiano e sono senza un impiego. Questi figli cresciuti, sospesi nella totale dipendenza dalla famiglia, evocano la drammatica immagine di una «generazione perduta», di un popolo senza identità né futuro. Le nuove generazioni hanno perso consistenza numerica e si sentono sempre meno protagoniste della società che abitano. La dispersione del contributo dei giovani è una gelata precoce dei loro sogni di vita e una perdita drammatica per il paese.

Un crescente numero di giovani (circa il 20%) nelle nazioni europee vive una condizione di pieno sconforto: l’inazione. La ricerca sociale internazionale li descrive con concetti e parole evocative quanto drammatiche. Lo sfocamento del senso del limite (shamelessness: senza limiti) è la conseguenza della perdita della capacità decisionale. Si fugge dalle responsabilità, si diventa incapaci di durata, si rimandano le decisioni importanti, in un’accentuata pulsione a essere senza tregua altrove (restlessness: agitazione). Si perde il controllo di sé, si svuota l’interiorità emozionale di ogni partecipazione (thoughtlessness: inconsistenza). Si diffondono l’evanescenza, la perdita generazionale, lo sradicamento sociale (purposelessness: senza obiettivi). Comune alle diverse condizioni è lo stato permanente (-ness) di perdita e di vuoto (-less). Questo stato d’inazione (-lessness) è particolarmente diffuso in Italia, forse perché più profondo è stato il crollo educativo, più antica l’inefficacia della politica. Più lunga è anche la crisi economica e sociale, il tunnel della mancanza di prospettive. Non è necessaria una catastrofe, infatti, per far percepire la propria vita senza via d’uscita. Basta una condizione critica che persista irrisolta troppo a lungo.

La madre di tutte le sconfitte è la ricerca estenuante e senza successo di un’occupazione stabile. Trovare un posto nella società produce la sensazione di contare e di avere valore. Il cronicizzarsi delle sconfitte, invece, blocca l’azione, uccide la motivazione. Le delusioni continuate nel tempo si trasformano in un più radicale senso d’inadeguatezza di fronte al mondo. Neppure la condizione della migrazione più drammatica produce un tale stress, almeno fino a quando la situazione è vissuta come transitoria. Per altri giovani, il disincanto scuote le fondamenta stesse dell’identità personale, fino a trascinarli in uno stato d’insicurezza profonda che rasenta la disperazione. Nella protesta muta (l’ansia, la depressione, le dipendenze) ci si ritira dalla società. La generalizzazione della disperazione irreparabile forma il nucleo centrale del disordine depressivo fino alla malattia mentale.

Per reagire a questa situazione è indispensabile un’azione sociale concertata che non solo crei opportunità di lavoro ma anche ne restituisca il senso e ne rigeneri le motivazioni. Il problema non è solo economico. Penso sia indispensabile un patto tra le famiglie e con le scuole, e un’azione congiunta per le nuove tecnologie e per lo sviluppo delle capacità creative.

Cambiare l’educazione familiare. In questi ultimi decenni i genitori si sono proposti di «non lasciar mancare nulla» ai loro figli. Paradossalmente proprio le generazioni che hanno ricevuto tutto, si sono ritrovate con niente. Ne è scaturita non la riscossa dei giovani ma la generazione dei «senza»: senza lavoro, senza certezze affettive, senza speranze e senza futuro. Gli adulti si sono assunti la missione di rendere la vita dei figli meno difficile possibile, fino a sostituirsi alla loro fatica e responsabilità. Non si sono accorti della squalifica che questo comporta. Esonerandoli dal senso del dovere, li hanno privati della soddisfazione della conquista. I genitori sono diventati, così, comprensivi e condiscendenti verso i propri figli e, spesso, superficiali e giudicanti verso i figli degli altri. In questo modo si sono rinforzate le basi dell’individualismo, all’origine della crisi educativa e sociale. Attraverso momenti partecipati di educazione degli adulti (come le «scuole dei genitori») possibilmente in ambiente pubblico, bisogna riscrivere democraticamente il patto intergenerazionale. I genitori hanno perso il loro sapere.

Ridestare il gusto dello studio. Il primo compito educativo della scuola consiste nell’aiutare gli allievi a trovare piacere nel pensare e nel sapere, poiché le delusioni affettive e le frustrazioni sociali incidono pesantemente sulla motivazione scolastica e sulle capacità di concettualizzazione. C’è una «libido sciendi» che non è un vizio ma il motore del riscatto e della professionalità, e che può fare del sapere uno dei godimenti più puri. Il piacere di studiare è rimasto solo nelle favole, come nella scuola di Harry Potter, nostalgia diffusa di un valore perduto. Questo piacere di imparare è l’eredità da riscoprire della scuola di don Milani. Non mancano nuove didattiche, che combinano attitudini cooperative e tecnologia, e stimolano il piacere di scoprire e imparare insieme. Il sapere è indispensabile per uscire dall’inazione. A. Sen ha dimostrato che le società che lo mantengono sono più resilienti.

Sostenere un uso attivo delle nuove tecnologie. Facebook è l’emblema di un’epoca, il simbolo di una nuova, eccitante, sensazione di libertà e di indipendenza. Ma è anche un’espressione potente del nuovo capitalismo dei big data, che sfrutta il bisogno di legame ma non promuove nei giovani il pensiero e l’azione. Le tecnologie sono come un «farmaco»: possono essere un veleno oppure un rimedio. Ci si può limitare a consumarle ma si può anche diventare «produttori» e «programmatori».

I giovani sono nativi nelle nuove tecnologie. Se le usano spesso per costruire mondi separati e chiusi è anche perché non vengono date loro occasioni e motivazioni più alte. La noia e la demotivazione, che a volte ostentano, sono la ribellione della loro intelligenza sottoutilizzata. Disponiamo di strumenti potenti e straordinari: è triste constatare che manchi ancora un progetto politico e sociale per il riscatto dei giovani attraverso l’uso intelligente delle tecnologie.

Sviluppare i talenti e la creatività. Le società si rinnovano con il contributo indispensabile dei giovani. La loro «invisibilità» produce un problema in aggiunta: l’afasia cognitiva ed emozionale, cioè l’incapacità di esprimere i talenti, di esporre le risorse, di raccontare pubblicamente il disagio, di difendere i giusti diritti di cittadinanza. È importante invitarli a parlare ma potrebbero dire poco di sé, essendo diventati silenti. Si possono convincere i ragazzi di quanto la loro esistenza sia preziosa e di quanto le loro competenze siano necessarie attraverso l’azione. Ci vuole anche una rete di territori che s’impegnino a condividere e confrontare le esperienze, a mobilitare le risorse, a «organizzare» la speranza (penso a cooperative di lavoro, a stage formativi, alla mobilitazione dei ragazzi attraverso la musica e lo spettacolo, al racconto del loro dramma mediante il rap).

Economia dei big data, internet delle cose, automazione spinta stanno ridisegnando industria e mercato. Non ritornerà più il lavoro di prima, anche se il futuro rimane l’industria. Contro la decadenza dell’Europa, l’innovazione sociale deve ricreare anche l’economia. Il dibattito aperto dall’Ars industrialis di B. Stiegler sull’economia contributiva è innovativo e stimolante, ma quasi sconosciuto in Italia. Ci vuole un reincanto del mondo attraverso nuove forme di solidarietà, fondate non solo sul cuore ma anche sulla ragione e sull’efficacia. C’è molto da fare e anche da sognare. Per questo ci vogliono i giovani.

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