Generazione "millennials": educare si può
L'ultimo libro del sociologo Franco Garelli su un tema delicatissimo. Educazione come semina per le generazioni future
Mai come negli ultimi tempi il discorso sull’educazione dei giovani appare contrastato, difficile e spesso carico di forti emozioni, specie in occasione di gravi episodi di cronaca nei quali sono coinvolti ragazzi e giovani. Questi fatti sarebbero, a parere di molti, l’inequivocabile segno dell’indebolimento dell’azione educativa di famiglia e scuola. La mancanza di educazione coincide con l’immancabile denuncia del «decadimento dei costumi e dei valori». Altri settori dell’opinione pubblica sono di diverso e contrario avviso e manifestano invece aperta diffidenza verso l’educazione corrente ancora intrisa, così viene detto, di vecchi e persistenti schemi autoritari. L’indebolimento dei «valori forti» del nostro tempo costituirebbe l’occasione ai giovani il diritto di «farsi la loro vita».
Tra «apocalittici» e «libertari» stanno più prosaicamente quanti ogni giorno sono faticosamente impegnati (leggi genitori e insegnanti) con la generazione dei millennials nutrita di un alto senso di autosufficienza, di libertà, di consapevolezza del proprio valore, immersa in una realtà virtuale esagerata che spesso costringe gli adulti «in ritirata». Di fronte alla precarietà educativa molti adulti rinunciano o autoriducono il loro ruolo, limitandosi alla cura materiale e ad essere semplici compagni di viaggio dei rispettivi figli e/o allievi, evitando qualsiasi atteggiamento che possa in qualche modo produrre frustrazioni o piccole sofferenze.
Il recente libro sul fenomeno educativo dei nostri tempi («Educazione»,ed. Il Mulino, pp. 157, euro 12) di Franco Garelli, sociologo esperto e uno dei più noti e apprezzati studiosi del mondo giovanile, costituisce una buona occasione per una riflessione pacata e costruttiva, impregnata di sano realismo e molto buon senso.
Il volume è di piacevole lettura e risponde a due principali esigenze. La prima è quella di aiutare il lettore innanzi tutto a «capire» e ad orientarsi su quanto sta accadendo nell’arcipelago educativo. La seconda è quella di svolgere qualche riflessione per non vivere la responsabilità educativa come un dovere pesante (e qualche volta frustrante), ma gestirla invece come una opportunità per intessere e sperimentare una relazione positiva con figli e/o allievi.
Chi intende avere un rapporto efficace con i giovani deve guardarsi, prima di tutto, dal rischio di prendere scorciatoie pessimistiche. Non corrisponde alla realtà del nostro tempo, secondo Garelli, che esista un decadimento educativo quasi come esito obbligato del tramonto della società lineare e abbastanza organica del passato, anche se il pluralismo ideale, la varietà degli stili e l’uso delle tecnologie ha notevolmente appesantito il compito degli educatori.
Ci sono nella prima parte del libro molti inviti a evitare la tentazione catastrofista. Non è vero, in particolare, che «i giovani d’oggi siano culturalmente refrattari a qualsiasi stimolo educativo, persi nel mondo virtuale, per vari aspetti anaffettivi, alieni a confrontarsi con altre età della vita»: molti giovani non sono invece «insensibili alle proposte che incontrano sul proprio cammino, sono alla ricerca di ragioni di vita e di figure di riferimento non attribuiscono a qualsiasi idea o stile di vita lo stesso valore».
Neppure corrisponde alla realtà che la famiglia media italiana sia così «problematica» da essere inaffidabile. Essa costituisce l’istituzione nella quale la maggior parte della gente si identifica e a cui attribuisce maggior valore, nonostante sia sempre più frequente la creazione di coppie che vivono i rapporti affettivi senza formare ufficialmente una famiglia. E alla famiglia sono particolarmente sensibili i ragazzi e i giovani che guardano ai genitori come ad un punto di riferimento importante anche quando, specie in età adolescenziale, si scontrano e talora entrano in diretto conflitto.
Anche la scuola, pur afflitta da molti problemi e trafelata nel rispondere alle troppe richieste che le vengono rivolte al di là delle sue tradizionali competenze (educazione ambientale, stradale, sessuale, digitale, alla legalità, ecc.) e pur guardata con una «fiducia dimezzata» non è poi così male come spesso viene rappresentata. Recenti rapporti internazionali la stanno rivalutando: il miglioramento riguarda la qualità del rapporto tra docenti e studenti (questi ultimi vanno in genere volentieri a scuola), la capacità inclusiva verso gli allievi (nessun altro sistema d’istruzione europeo è così accogliente), le performances in matematica e scienze da sempre un punto dolente.
Insomma, sembra dire Garelli, non piangiamoci troppo addosso. Se si considera il triangolo giovani-famiglia-scuola non siamo infatti così mal ridotti come certe semplificazioni vorrebbero far credere. Certo, ci sono anche i «genitori sbagliati» e i docenti senza motivazione, le famiglie purtroppo divise e le scuole malandate e di mediocre qualità, ma si tratta più di eccezioni anche se rilevanti, che della regola.
La prima condizione per immergersi nel mondo dell’educazione giovanile viene, dunque, individuata nella capacità di vedere il classico ‘bicchiere mezzo pieno’, per quanto consapevoli che esiste anche quello ‘mezzo vuoto’. Se cediamo al pessimismo scolastico o familiare non andiamo da nessuna parte.
Già in questa prima parte del saggio il sociologo torinese pone alcuni tasselli per la trattazione della seconda parte dedicata a individuare alcune possibili piste d’intervento adulto. Per esempio, a proposito della scuola, Garelli osserva una realtà tanto semplice da capire quanto fondamentale: le scuole funzionano bene e sono ricercate dalle famiglie quando ci sono docenti che non si limitano a una stanca ripetizione di nozioni riciclate sempre identiche a se stesse, ma capaci di mantenere vivo e vitale il rapporto con gli allievi senza cedere - beninteso - a un falso e controproducente giovanilismo o a un buonismo tollerante. Insomma la vitalità della relazione educativa e la sua efficacia dipendono prima di tutto dagli adulti capaci di essere «significativi».
Ma chi sono questi «adulti significativi» - o «autorevoli» - nelle cui mani è deposta la capacità di orientare verso il bene e l’esercizio della libertà e della responsabilità? Sono quegli adulti, spiega Garelli, che non si propongono come «modelli da imitare», ma come persone dotate di una propria maturità, capaci di comprendere, ma anche - quando è il caso - di dire dei «no» tondi, soprattutto «capaci di interpretare l’esistenza in modo interessante, in grado di permeare il loro intorno immediato delle qualità relazionali, culturali, affettive che li caratterizzano». Adulti che fanno gli adulti, insomma, disposti, d’un lato, ad ascoltare i ragazzi e i giovani e a ragionare con loro e, dall’altra, ad accettare la responsabilità dell’educatore attraverso la proposta «che la vita ha un senso, che è possibile tendere a obiettivi importanti, che il futuro è la loro scommessa». Non adulti che dicono «fai così», ma «fai con me».
Detto questo bisogna comunque considerare che l’educazione è un evento sempre aperto e dall’esito sempre incerto. Non ci sono ricette magiche o metodi infallibili. Questo è, in ultimo istanza, anche il senso che Garelli dà al suo libro che si chiude, non a caso, con l’affermazione che «educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto».
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