Culle vuote e teste piene

Una riflessione sulla vita nascente e declinante è immersa in un ‘passato di culture’ che identifica l’essere col fare e mette al primo posto la dimensione economica

Parole chiave: calo demografico (1), vita (45), famiglia (86), prospettive (6), futuro (36), economia (65)
Culle vuote e teste piene

Diciamolo subito: tutte le cause specifiche della denatalità segnalate nei commenti ai recenti dati Istat sulle ‘culle vuote’ in Italia sono reali e concrete. Per citarne solo alcune: precarietà lavorativa ed economica, difficoltà a metter su casa e famiglia, inesistenza di politiche sociali strutturali a sostegno della famiglia, sfiducia dei giovani nel futuro, investimento dei più senior su altre dimensioni della vita per le quali un figlio sarebbe un ostacolo, con uno straordinario paradosso per cui non fa figli né chi fatica a campare né chi campa benissimo.

Tutto vero. Ma non basta a spiegare cifre da vera e propria desertificazione umana. Le culle così tragicamente vuote si spiegano solo se collochiamo tutte le cause specifiche elencate sopra, e le altre che ancora si possono individuare, nel quadro di una cultura, anzi, di un passato di culture nel senso culinario del termine: un minestrone i cui ingredienti sono frullati e mescolati al punto da risultare quasi indistinguibili.

È ciò che sempre accade quando grandi filoni ideologici (grandi per la loro importanza e impatto storico e sociale, indipendentemente dal giudizio che se ne può dare) esauriscono la loro carica e si stemperano in un ‘clima’ che permea il sentire comune delle persone, favorito dalla commercializzazione delle idee tipica della società-spettacolo e dal bla-bla che caratterizza la maggior parte delle comunicazioni sui social media, in un contesto dove la sola, vera forza dominante è quella del mercato e del profitto. Le culle sono vuote perché le teste sono piene di questo frullato culturale.

Fabiano o Dj Fabo?

Mentre scuotiamo il capo davanti ai dati sulla denatalità, ci appassioniamo al dibattito su come impedire che l’obiezione di coscienza dei ginecologici ostacoli l’aborto e su come consentire di farla finita a chi non se la sente più di vivere. E non ci poniamo domande che invece dovremmo porci con urgenza. Ad esempio questa, che propongo con profondo rispetto per la persona e la sua vicenda: chi è morto col suicidio assistito in una clinica svizzera? Fabiano o Dj Fabo?

Le pareti della sua camera, che hanno popolato per giorni i servizi televisivi, erano piene di foto dei momenti in cui Dj Fabo ha dato il meglio di sé e ha avuto ciò che per lui era il meglio dalla vita: alla console, in viaggio, feste, giovani, affetti, e soprattutto lui in grandissima forma, padrone delle situazioni, generoso nel condividere i propri talenti. Quando tutto questo si è fermato per sempre, Dj Fabo è scomparso ed è rimasto Fabiano. Ma Fabiano non ha ritenuto che ciò fosse sufficiente a motivare la sua esistenza. Nonostante l’amore delle persone care e l’affetto dei fan e degli amici, non se l’è sentita di proseguire la vita confinato in un letto, totalmente dipendente dall’assistenza altrui e quasi del tutto incapace di parlare.

E allora, senza osare alcun giudizio (tentazione contro cui il Vangelo ci ammonisce severamente), questa domanda non possiamo tacerla: è morto Fabiano o Dj Fabo? Certo, in concreto sono morti tutti e due. Però è difficile non pensare che la nostra cultura valuti la vita come degna o non degna di essere vissuta non a partire da chi si è, ma da ciò che si può o non si può fare. E che questa cultura generi ricadute di business: in Internet circolano, per il suicidio assistito, prezzi tra i 5 e i 10 mila euro, a seconda dei servizi annessi (cremazione, servizio funebre, ecc.). Se queste cifre sono attendibili, essere aiutati a morire costa più o meno quanto farsi ingrandire il seno: la mastectomia additiva sta infatti tra i 4.500 e i 6.500 euro. L’accostamento non vuole essere irriverente. Serve a mettere bene in evidenza come ogni aspetto dell’esistenza sia ormai soprattutto una voce su un listino prezzi.

L’essere e il fare

Nel dibattito sul fine-vita e in quello sulla denatalità questi elementi, e soprattutto la domanda cruciale sull’essere e sul fare, dovrebbero entrare, anzi, dominare la scena: ha senso vivere senza poter più fare molte cose? ha senso generare un figlio se non gli possiamo garantire di fare una vita agiata e di successo, o se la sua presenza esigente limita ciò che possiamo fare noi? La risposta è affermativa solo se l’essere conta più del fare.

Ma è fondato il timore che la domanda sia ormai irrecuperabile, in una cultura che identifica l’essere col fare e ad ogni aspetto di quel fare assegna un valore economico, incluso il costo di assistere a tempo indeterminato una persona totalmente invalida.

Non ci sarebbe da stupirsi se, come ‘contributo tecnico’ alle discussioni sul fine-vita, venisse fuori da qualche cassetto una stima dei vantaggi di rendere mutuabile il costo del suicidio assistito rispetto agli oneri del supporto sanitario prolungato. Un malato in condizioni estreme, ma cosciente, si sente già di suo inutile e di peso per la famiglia e la collettività. E non è irrilevante se il clima culturale, anche indirettamente e per allusioni, coltiva in lui e nei familiari questo sentimento invece di dissiparlo. Se poi, sotto la spinta a ridurre la spesa pubblica, si dovessero ulteriormente tagliare le prestazioni sanitarie, costringendo le famiglie a ricorrere al privato e ai suoi prezzi, la pressione per agevolare il fine-vita aumenterebbe ancora.

Nonni senza nipoti

Nello stesso listino prezzi ci sono i costi per crescere un figlio, costi che gravano quasi totalmente sulla famiglia. E questa situazione è destinata a peggiorare, perché l’Istat ci dice che a fronte delle culle vuote c’è un aumento dell’aspettativa di vita. Cosa in sé positivissima, ma quali politiche chiederà una popolazione sempre più anziana e composta da nonni senza nipoti? Non certo una politica della famiglia che incentivi la natalità, ma piuttosto provvidenze che rendano migliore la qualità di vita nella vecchiaia.

Aver cura delle nuove generazioni è un potente antidoto a quel ripiegamento egocentrico che è tipico dell’età avanzata. Se le nuove generazioni non ci sono, i vecchi esigeranno, comprensibilmente, che ci si prenda prioritariamente cura di loro. E se quasi soltanto gli immigrati faranno figli, è ragionevole aspettarsi non una ‘adozione politica’ delle loro sorti, ma un aumento del fastidio per le risorse che assorbono, sapientemente alimentato da forze nazionaliste e xenofobe e da chi cavalca la rabbia e la frustrazione, scegliendo le cause da sostenere in base al numero di voti arrabbiati che possono procurare e cambiando il proprio orientamento in base a questo particolare tipo di indagine di mercato.

Intanto, nessuno, nello schieramento politico, pare davvero intenzionato a combattere l’evasione fiscale dei connazionali, che le risorse le rubano a mani basse ostacolando ogni serio tentativo di politiche di equità sociale. Politiche per le quali i soldi ci sarebbero in abbondanza, se è vero che ben oltre 200 miliardi di euro all’anno sono sottratti alle casse dello Stato.

Il fuori pasto del gatto

Detto questo, dobbiamo però anche interrogarci sul perché non fanno figli nemmeno quelli che i costi li potrebbero sopportare senza problemi. Non sarà un caso se, negli spot televisivi, quelli sui prodotti per la prima infanzia sono ormai stati raggiunti (fors’anche superati) da quelli per la cura degli animali domestici. Con lo stridore di un gessetto sulla lavagna ascoltiamo i dati della Caritas sull’aumento delle famiglie in povertà assoluta, che letteralmente patiscono la fame, e l’invito a comprare per il nostro caro gattino delle ghiottonerie per lo spuntino fuori pasto.

Ritorna pure qui il grande quesito sull’essere e sul fare, perché è dalla risposta a questo che dipende anche l’apertura oblativa a generare nuove vite e assumersene la responsabilità. Ma, come si è detto, l’opinione pubblica è troppo occupata a indignarsi perché il numero eccessivo di medici obiettori ostacola l’esercizio del diritto all’aborto e perché manca una legge che regoli e garantisca il diritto a concludere la vita. Senza farsi sfiorare dal pensiero che, in materia di vita, i ‘diritti’ più fieramente rivendicati sono quelli il cui esercizio ha come esito la morte. 

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